“Il turismo ha rappresentato – e continua a rappresentare – per molte località delle Alpi un’attività economica fondamentale, in grado di evitarne, almeno in parte, lo spopolamento, di garantire alla comunità residente possibilità di lavoro e di reddito, nonché di permettere la realizzazione di investimenti sul territorio, tanto in termini di infrastrutture, quanto di servizi, che, altrimenti, difficilmente sarebbero presenti”. Il rapporto turismo-montagna è indagato da Magda Antonioli Corigliano, docente di Macroeconomia ed Economia del Turismo all’Università Bocconi, membro del cda di Enit e vicepresidente di European Travel Commission.
Un rapporto che nel tempo è cambiato profondamente, professoressa?
Alti e bassi. Dopo la forte crescita che ha connotato gli anni ’60 e ’70, la “montagna turistica”, si è assistito progressivamente, soprattutto dagli anni Duemila, a una netta fase di stagnazione, che ha dato luogo – in taluni casi – a una vera e propria crisi. Questo, sia per cause esterne, legate in primis a modifiche del comportamento del consumatore, non più o non tanto interessato ai modelli classici di villeggiatura estiva e sci alpino tradizionale, ai cambiamenti del clima, con condizioni meteo, anche se ad anni alterni, più instabili – poca neve in inverno ed estati piovose -, ma anche per cause interne, riassumibili nel ritardo con cui diverse destinazioni hanno interpretato l’evoluzione di contesto nel turismo. A fronte di destinazioni che hanno saputo adattarsi e innovare, sia dal punto di vista tecnologico – es. innevamento artificiale, rinnovamento e maggiore efficienza degli impianti etc -, sia da quello dell’offerta – nuovi servizi, nuove attrazioni, nuovi prodotti… -, che ancora da quello organizzativo – allargamento dei comprensori, introduzione di logiche di governance, realizzazione di vere e proprie destination management e marketing organization -, altre non hanno compreso per tempo la necessità di investire per allinearsi a condizioni che stavano e stanno tuttora cambiando.
Nel frattempo, è cresciuta anche la concorrenza, soprattutto a Est: servirebbe una strategia mirata?
Certamente. Va sottolineata, a proposito della valorizzazione delle aree montane nazionali, la legge quadro sulla montagna in atto, che unita alle risorse del Pnrr, potrà finanziare interventi non solo – o meglio, non tanto – “risarcitori” per questi territori, quanto piuttosto legati alla creazione di un vero e proprio piano strategico di sviluppo e crescita, consentendo così al turismo di continuare a rivestire un ruolo di primo piano in tale traiettoria. Questo non in una logica monoculturale o esclusivista, come successo in passato in alcune destinazioni, bensì al contrario in un’ottica di integrazione con altri settori economici e sociali, così da sviluppare una competitività sul mercato e una sostenibilità di lungo periodo.
Sostenibilità che passa anche al decentramento dei flussi e alla destagionalizzazione?
Vediamo qualche dato, con riferimento all’Italia: l’11,9% degli oltre 6.000 Comuni definiti dall’Istat come “a vocazione turistica” si trova in montagna e, di questi, quasi un terzo ha anche una vocazione culturale o storico-artistica , asset da non sottovalutare, in un’ottica di diversificazione dei flussi e arricchimento dell’offerta. L’offerta italiana è ampia e, nonostante una maggior concentrazione nelle aree alpine, anche molto diffusa: quasi tutte le regioni italiane, infatti, possono vantare almeno una stazione sciistica. Pre-Covid i numeri si potevano stimare in oltre 12 milioni di arrivi e 55 milioni di presenze, pari al 10,3% dei turisti e al 12,6% delle notti trascorsi nel nostro Paese, con una tendenza che dal 2015 registra un incremento costante seppur leggero. Era ancora una domanda prevalentemente domestica, con un tasso di internazionalizzazione pari al 30% circa, e bacini di origine estera di prossimità. Questi dati considerano però la montagna nell’insieme delle sue stagioni – non solo quella legata allo sci – ed è interessante notare come già pre-Covid, oltre alle presenze nel loro complesso, fossero in crescita, seppur ancora residuali in termini assoluti, anche le statistiche relative alla primavera e autunno, storicamente poco considerate dagli sportivi, segno della progressiva diversificazione – ancor più evidente nel post-Covid – di tempi e modalità di fruizione di queste destinazioni. La clientela montana è oggi sempre più attenta ed esigente e sceglie la meta non solo in base all’offerta ricreativa classica, ma anche per la bellezza naturalistica del luogo, per le sue tradizioni e per la possibilità di abbinare prodotti turistici diversi in un’unica vacanza. Aspetto quest’ultimo peraltro ben riconosciuto ed apprezzato nella candidatura italiana a Milano-Cortina 2026.
Avvenimento che allo sport somma anche molto altro…
Si stava già assistendo, anche in tale ambito, a una micro-segmentazione della domanda, le cui motivazioni sono sempre più complesse e articolate, non solo legate allo sport, ma a un benessere anche mentale, ad un’autenticità di gesti e di prodotti, al rispetto della cultura dei luoghi… Ecco quindi che dare una lettura del turismo montano nel suo classico dualismo estate/inverno, visti come stagioni e prodotti completamente distinti e indipendenti, risulta allo stato attuale semplicistico, se non addirittura fuorviante.
Infatti, si parla molto delle stagioni “terze”.
La montagna registra un grande successo durante la stagione estiva e i mesi “di spalla”: al di là di una maggiore sicurezza percepita grazie all’aria aperta e al distanziamento sociale, la vacanza è un momento attraverso cui prendersi cura di sé, il mezzo per ritrovare la serenità mentale, oltre a un benessere fisico, dopo mesi di privazioni e costrizioni, nonché riapprezzare la socialità, attraverso gesti e piaceri semplici e il contatto con la natura. Ed ecco che le destinazioni minori, montane in primis, sono apparse soprattutto durante la pandemia come il luogo ideale dove staccare dalla frenesia urbana, (ri) scoprire le relazioni umane, la cultura e l’offerta enogastronomica locale, il contatto il paesaggio circostante, il tutto all’insegna di genuinità, autenticità ed una sostenibilità sociale, ancor prima che ambientale.
Tutte possibilità che anche adesso muovono molti flussi verso le terre alte. Scelte che si basano anche sulla sostenibilità offerta da destinazioni e strutture?
Sì. Se il venir meno delle limitazioni ha fatto sì che anche alcune tendenze viste si ridimensionassero, è innegabile come altre siano invece rimaste; anzi, ci si aspetta un ulteriore consolidamento nel prossimo futuro, a cominciare dal rifiuto ormai totale della massificazione e dei modelli tradizionali e un maggiore interesse verso la sostenibilità dell’offerta. La stragrande maggioranza dei viaggiatori ritiene che viaggiare in modo sostenibile sia importante, fino a lamentare una mancanza di offerta in questo senso o a non sapere come orientarsi per una scelta consapevole. Se, a livello internazionale, un viaggiatore su cinque ridurrebbe gli spostamenti per diminuire le emissioni di CO2, quasi il 60% degli italiani nel pianificare le proprie vacanze si è posto il tema di quali scelte potessero danneggiare l’ambiente, essendo per questo in larga parte disposto a spendere fino al 20% in più. Sul tema della sostenibilità, sembra quindi che la domanda dimostri una sensibilità spesso maggiore di quella degli operatori del settore.
Si pone quindi il tema dell’utilizzo delle risorse, tra la salvaguardia dei giacimenti naturali, la loro manutenzione, e lo sviluppo economico dei territori.
Come per tutte le attività economiche, affinché il turismo crei reddito e occupazione è necessario che utilizzi delle risorse, ma che nel tempo le stesse debbano essere preservate. È in altri termini indispensabile bilanciare la logica di breve termine, orientata solamente ai risultati economici con quella di lungo periodo, che li esclude completamente a favore della sola conservazione delle risorse – naturali, culturali, storiche che siano…-, in una visione di sostenibilità “integralista”. In altre parole, i concetti di competitività e sostenibilità nel turismo dovrebbero guidare assieme la programmazione strategica, senza mai venire letti disgiuntamente. Ciò che differenzia il turismo da altre attività economiche sta nel fatto che il prodotto altro non è che è la destinazione, ovvero in primis il contesto di vita di una comunità e solo in seconda battuta quello esperienziale dei turisti. La comunità locale nel suo complesso assume un ruolo centrale, perché i fattori caratteristici – e quindi distintivi – del prodotto turistico, appartengono a essa. Prima di parlare di governance della destinazione, di politiche turistiche o strategie – collettive e dei singoli -, è necessario creare una consapevolezza diffusa nei residenti di quelli che sono i vantaggi che il turismo apporta alla destinazione nel suo complesso.
Consapevolezza, cooperazione e monitoraggio: sono queste le basi della programmazione, le chiavi per lo sviluppo futuro?
È necessario, in prima battuta, sviluppare nelle popolazioni locali uno spirito di appartenenza e un senso di orgoglio, includendo, laddove necessario, anche azioni di “educazione del turista”, prima di procedere alla programmazione e promozione del comparto. Azioni su valori etici, di tipicità, cooperazione, che portino ad attivare processi di social innovation e di visione “nuova” del turismo, che non deve essere più solamente inquinamento, traffico o aumento dei prezzi, ma sempre più un’opportunità per la crescita futura della comunità stessa, all’insegna dei benefici sopra elencati. Ovviamente parallelamente si renderà necessario investire per permettere il “rinnovamento” delle comunità montante; investire in efficientamento di strutture e infrastrutture, investire in accessibilità e mobilità, investire in servizi accessori, investire anche in una logica smart. Ma perché l’investimento possa portare a un cambio di passo e produrre i benefici attesi non può essere lasciato all’unilaterale iniziativa del singolo. Al contrario, si rende necessario un piano di sviluppo strategico, fondato su valori e su una visione condivisi dalla comunità residente nel suo complesso. Attività che implica in modo imprescindibile anche l’adozione di un set di indicatori ambientali di sostenibilità gestionali, da monitorare per indirizzare i processi decisionali.
(L’intervista, di Alberto Beggiolini, è tratta dal recente volume “Il turismo di montagna: sfide e opportunità di un settore in trasformazione”, realizzato da TH Group, Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Scuola Italiana di Ospitalità – iniziativa di formazione di Fondazione Cassa Depositi e Prestiti e TH Resorts).
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