La nostra montagna è cambiata molto. Ed è aumentata la quota di mercato internazionale, soprattutto quella dall’area DACH (Germania, Austria, Svizzera), ma anche dagli Stati Uniti e dal Sud America, molto meno dall’Asia”. Parola di Andy Varallo, dal 2020 presidente di Dolomiti Superski, il più esteso carosello sciistico italiano.



Si sono assottigliate le differenze tra la stagione invernale e quella estiva, presidente?

Per la stagione invernale i margini di miglioramento sono esigui, per quella estiva le trasformazioni sono più evidenti e suscettibili di nuove geometrie. La neve e gli sport collegati hanno iniziato un nuovo sviluppo grazie all’effetto traino di campioni come Alberto Tomba, che ha spinto anche una certa evoluzione industriale, tra ricerca e sviluppo di inediti materiali tecnici, di moderne attrezzature, anche di più efficaci strategie di comunicazione. La montagna/estate ha seguito un percorso simile: più arrivi e presenze e più l’industria di attrezzature e abbigliamento s’è aggiornata, proponendo ad esempio linee evolute di capi per l’outdoor. Basta paragonare le pedule di vent’anni fa con un paio di moderne calzature da arrampicata: decisamente mondi diversi.



Quanto ha inciso lo sport? Quanto importanti sono i circuiti delle grandi gare sciistiche?

In Alta Badia, sulla Gran Risa, la prima gara di Coppa del mondo si svolse nel 1985: il fascino è assicurato da una pendenza del 53%, un dislivello di 448 metri su una lunghezza di 1255. Una vera sfida per lo slalom gigante, uno dei più impegnativi del circo bianco, e dal 2006 anche per lo speciale. Dal 1985 al 1988, in tre anni di edizioni della Coppa, gli arrivi si sono triplicati, confermando l’enorme attrattività della gara, e motivando anche le policy di investimento, sia privato che pubblico. Si tratta di avvenimenti importanti, che hanno forte impatto sui mercati. Per la stagione estiva bisogna procedere nello stesso modo, tra organizzazione di eventi e proposta di attività alternative alla classica passeggiata, come running, parchi, giochi, pareti di roccia, nuovi percorsi per l’e-bike. Come è accaduto in Sella Ronda, con l’E-Bike King tour, 60 chilometri, o l’MTB track tour, su quattro valli che si affacciano al massiccio del Sella: Val Gardena, Alta Badia, Arabba, Val di Fassa. Ma è curioso verificare l’osmosi tra montagna, sport e industria: non sempre i primi due spingono l’altra, spesso accade che sia l’evoluzione dei prodotti a incentivare la pratica outdoor, com’è accaduto ad esempio, come dicevo, con le scarpe tecniche, oggi ben più leggere e confortevoli rispetto al passato. Tutto ciò, interesse dell’industria e aumento delle presenze estive, ha spinto gli operatori a nuovi investimenti almeno parte di quei capitali che prima venivano destinati solo alla stagione invernale.



Si può misurare, oggi, il risultato di queste trasformazioni?

In dieci anni, le nostre estati sono passate da 80 impianti aperti per 86 giorni a 120 impianti in funzione per 114 giorni minimi di esercizio. La crescita è evidente, e lo è ancora di più se si valuta l’andamento di questi ultimi due anni, quando si è innescato l’effetto post-pandemia, con il desiderio diffuso di spazi aperti, di libertà in sicurezza, che ha moltiplicato il valore multifunzionale delle stagioni estive in quota. Un tempo le presenze in montagna si dividevano sul 70% in inverno e il 30% in estate, adesso siamo quasi al pareggio, 55% in inverno e 45% in estate. La vera differenza resta nei fatturati, ancora fermi a quel 70/30%, vista la spesa media dei turisti molto più alta in inverno. E quindi la sfida vera è riuscire ad aumentare la marginalità estiva, ma i presupposti già ci sono. Ad esempio le speranze date dal ringiovanimento della clientela estiva, passata da una media di 55 anni a 44 (in inverno è di 42).

L’obiettivo è puntare su una copertura a 365 giorni?

Decisamente no. Adesso siamo a 114 giorni d’estate e 135 in inverno. Si può aumentare qualcosa, arrivando a 130 d’estate, ma basta. In quota le gestioni sono quasi sempre familiari, impegnate senza sosta per quei periodi e bisognose di uno stacco deciso negli altri. Anche le famiglie sono più strutturate rispetto a un tempo, con una netta ripartizione delle mansioni nel rispetto delle competenze acquisite con l’esperienza. Non si è ricorso a management esterni, forse, ancora no. Ma le gestioni oggi si può dire siano sufficientemente organizzate. Bisogna però rispettare la qualità e i tempi di vita, sempre più fondamentali per i giovani, per evitare il loro abbandono. E sono anche stacchi indispensabili per consentire le manutenzioni, gli adeguamenti e così via.

Si è sempre detto che la ricettività in montagna spesso non è adeguata alla domanda. È ancora così?

Servirebbe un’adeguata proporzione tra fabbisogno di posti letto e offerta presente in loco. Quando un centro soffre la speculazione edilizia, con il risultato di una maggioranza di posti letto freddi rispetto ai caldi (i freddi sono quelli delle seconde case, vuote per la maggioranza del tempo; i caldi sono quelli delle strutture di hospitality), non riesce a garantire l’equilibrio per un numero di clienti in grado di soddisfare le esigenze e le marginalità delle attività locali. In pratica, con pochi clienti non si possono affrontare i costi elevati di gestione delle strutture e del personale. Ripeto: occorre trovare un equilibrio. E bisogna trovare nuovi investitori. In Alto Adige si è cercato di distinguere l’edilizia abitativa agevolata e l’altra, a cubatura libera, proprio per evitare le sperequazioni. In altri centri bisognerebbe attivare compensazioni di questo tipo. Per fare un esempio, a Cortina su 42 mila presenze, 37 mila sono in seconde case.

Resta il capitolo infrastrutture, anche questo sempre in bilico tra esigenze e sostenibilità economica.

È palese la necessità di adeguare i collegamenti, soprattutto su rotaia, dove possibile, in maniera da rispettare anche l’ambiente montano. Ma andrebbero anche previste le facilitazioni per l’ultimo miglio, cioè il tratto che il cliente deve affrontare tra la stazione terminale della ferrovia e la sua destinazione finale, un tratto che andrebbe servito meglio, soprattutto se si riuscisse davvero a contare su collegamenti su rotaia a medio raggio, a loro volta agganciati alla rete nazionale. Prendiamo la vecchia Ferrovia delle Dolomiti, la linea a scartamento ridotto tra Calalzo, Cortina e Dobbiaco, che funzionò tra il 1921 e il 1964. È piuttosto evidente che oggi servirebbe ripristinarla, ma è altrettanto evidente che potrebbe sviluppare tutta la sua potenzialità solo grazie al collegamento con la rete nazionale.

(L’intervista, di Alberto Beggiolini, è tratta dal recente volume “Il turismo di montagna: sfide e opportunità di un settore in trasformazione”, realizzato da TH Group, Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Scuola Italiana di Ospitalità – iniziativa di formazione di Fondazione Cassa Depositi e Prestiti e TH Resorts)

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