La montagna è cambiata? E sta ancora cambiando? Si parla di welfare comunitario e dello sviluppo e della valorizzazione delle aree marginali. Cos’è prevedibile, nel medio periodo? Lo abbiamo chiesto a Tommaso Santini, ingegnere, manager con oltre 20 anni di esperienza in diversi ambiti del real estate e dello sviluppo economico, strategic advisor del gruppo quotato Gabetti Property Solutions Spa, e membro dei cda della società governativa Infrastrutture Milano Cortina 2020-2026 Spa.



“Se è vero che una questione montagna certamente esiste, è altrettanto vero che essa va posta in maniera diversa dal passato: della montagna occorre occuparsi non per assisterla, ma per far sì che il suo valore, le sue specificità, i suoi tanti talenti siano valorizzati e messi in circuito, a beneficio della montagna stessa e del Paese nel suo complesso. In Italia (dati Istat) il territorio di montagna rappresenta complessivamente il 54,3% della superficie nazionale, dove vivono circa 11 milioni di abitanti (quello totalmente montano è il 48,9% con quasi 9 milioni di abitanti), vale a dire il 17,9% della popolazione. Invecchiamento della popolazione e spopolamento restano due criticità da affrontare. Da un recente studio (Antonio Preiti) emerge che le differenze nei trend demografici tra le aree montane dimostrano che la geografia non è il destino: lo spopolamento non dipende tanto dall’orografia, quanto piuttosto dalla qualità delle politiche pubbliche. L’indice di vecchiaia è più alto della media nazionale, e ciò rappresenta un problema decisivo per il futuro delle terre alte, e non solo. Qui si producono, infatti, 235 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 16,3% della ricchezza totale generata in Italia. Il valore aggiunto pro-capite è di poco inferiore alla media del Paese (21.600 euro l’anno contro 23.800). Per non parlare del patrimonio ambientale, paesaggistico e storico-culturale e del capitale sociale. Ma non solo. I numeri certificano anche la presenza di un tessuto economico e imprenditoriale vivo, soprattutto in quei settori di attività dove si realizza quel “bello e benfatto” che caratterizza molta parte del Made in Italy. Il cambio di paradigma rispetto alla percezione di un ambiente fragile, in declino, talvolta in abbandono significa mettere la montagna nelle condizioni di competere con le altre aree urbane del Paese. A partire dalla necessità di infrastrutture sostenibili che mettano in connessione le “terre alte” per i turisti e soprattutto per i cittadini e le imprese che qui vivono e producono. Ma anche livelli di istruzione e sanità in linea con altre zone urbane del Paese”.



Sono nati nuovi modi di sentire e vivere la montagna? È cambiato il turismo?

Giuseppe Dematteis a proposito dell’economia delle “terre alte” rileva che: “La maggior parte del territorio montano può continuare a ospitare insediamenti e attività produttive. Può essere il laboratorio dove sperimentare modelli di abitare, capaci di rispondere alla crescente domanda di un vivere diverso, meno individualista, più attratto dell’economia della felicità che non da quello dell’accumulazione e dei consumi”. Ciò peraltro è confermato dai dati 2022 di acquisto di case in aree montane (+13,5% rispetto al 2021) sia per uso diretto che per investimento. I cambiamenti climatici e gli effetti post Covid stanno progressivamente mutando la percezione della montagna. Non solo un turismo legato alle località sciistiche, ma più in generale un turismo che ricerca luoghi di benessere e qualità della vita dove poter praticare tutti i tipi di sport consentiti, apprezzare i prodotti della cucina locale, ricevere trattamenti per il proprio corpo e perché no, trovare svago e divertimento.



Come (e se) si sono evolute le economie di quota? Hanno strumenti adatti per rispondere ai mercati? C’è anche chi aveva abbandonato la montagna per andare a lavorare in valle o in città e che ora ritorna nei luoghi che ha abbandonato.

Nel 2019 il Pil prodotto nelle “terre alte” ammonta a 805,6 miliardi di euro, il 44,9% del totale nazionale, una quota più che doppia rispetto al 20,7% registrato dalla media delle aree montane nell’Ue. In Italia sono 63 le province montane e contano oltre 2 milioni di micro e piccole imprese (MPI) attive con circa 5,1 milioni di addetti che rappresentano il 47,3% degli addetti nazionali delle MPI. In particolare, nelle province montane sono 536 mila le imprese artigiane attive con 1.35 milioni di addetti, pari ad oltre la metà (53,0%) degli addetti dell’artigianato italiano ed al 18,2% degli addetti nazionali. Nel 2021 l’economia della montagna ha rappresentato il 45% del valore aggiunto nazionale con incidenze superiori alla media nazionale nei settori ad alta vocazione artigiana quali le costruzioni e il manifatturiero esteso. Grazie alla diffusa presenza di imprese manifatturiere, l’economia della montagna realizza il 47,2% delle esportazioni nazionali, pari a 232,6 miliardi di euro. La montagna è si un luogo dove fare impresa è più difficile, ma non impossibile, come attestano il tasso di imprenditorialità (86,7 imprese ogni 1.000) e l’incidenza di lavoro femminile superiori alla media nazionale.

Cosa potrebbe servire ai centri montani per affrontare al meglio i prossimi anni?

Citando lo scrittore Stefano Ardito “Siamo un Paese di montagne che crede di essere fatto solo di città e spiagge“. Innanzitutto serve una diversa consapevolezza a livello Paese del patrimonio e del potenziale che la montagna rappresenta per l’economia italiana. Ecco: le località di montagna devono attrezzarsi ai cambiamenti climatici e ai trend del turismo adottando un approccio di “piattaforma turistica” che sviluppi in modo integrato e diversificato la moltitudine dei servizi a favore dell’utente. Ed è proprio in questa direzione che devono focalizzarsi le politiche pubbliche. Accompagnare gli imprenditori e gli operatori delle “terre alte” con interventi che contribuiscano a migliorare e rendere più competitivo il “sistema montagna” collegando gli episodi virtuosi dei singoli in una meravigliosa storia da raccontare nel futuro. Olimpiadi Invernali 2026 e Pnrr sono senz’altro occasioni uniche e irripetibili per alcuni territori montani: ma per la montagna serve un programma strutturale di lungo periodo.

Inverno/neve e estate: quali potrebbero essere le suture tra le stagioni turistiche?

Il problema endemico delle località di montagna è il fenomeno della “stagionalità” del turismo che è determinata da fattori quali il clima e il tempo libero che corrisponde ai periodi delle ferie e di conseguenza con la chiusura delle scuole e le festività con ripercussioni rilevanti nelle economie delle aree interessate. La stagionalità del turismo va letta sia rispetto all’andamento delle stagioni ma anche nei cicli settimanali. È altresì vero che la montagna è un tipico esempio di doppia stagionalità che registra il picco di presenze d’estate e d’inverno. Può la montagna tendere all’assenza di stagionalità? Sicuramente si tratta di location strutturalmente differenti dalle cosiddette città d’arte dove si riscontra appunto l’assenza di stagionalità. Tuttavia sono già in atto importanti trend del turismo che hanno un impatto diretto sulla destagionalizzazione della montagna: lo smart working, l’accrescere dell’attenzione per il benessere e la salute, il fenomeno della silver age, la diffusione di nuove discipline sportive, il turismo termale, la ristorazione d’eccellenza. Ma anche il fenomeno dei “green seekers”: persone che sentono il bisogno di lasciare la città, luoghi ricchi di stimoli e di comodità ma anche caotici e soffocanti, per riscoprire il piacere di vivere in piccole realtà, a contatto con la natura.

Come traccerebbe il futuro infrastrutturale, tra collegamenti, impiantistica di risalita, skiaree ed ecoparchi estivi?

Con riferimento alle località montane invernali, il futuro deve necessariamente tener conto degli effetti dei cambiamenti climatici e di conseguenza la pianificazione degli investimenti non può prescindere dal “Piano neve” che le regioni devono adottare. Si assisterà dunque a una concentrazione degli investimenti per potenziare e rinnovare gli impianti di risalita nelle località “climaticamente compatibili” con le curve di temperatura dei prossimi 10-20 anni. Da una parte quindi il rafforzamento delle ski area già mature e con condizioni climatiche sostenibili per l’innevamento, dall’altra parte le location prospetticamente non sostenibili che sono destinate progressivamente a diversificare il proprio modello di turismo che non potrà evidentemente essere basato sull’economia dello sci. Sarebbe accanimento terapeutico. Saranno importanti anche i collegamenti intervallivi in grado di creare maggior massa critica connettendo tra loro diverse ski area (basti pensare al circuito del Sellaronda) che sono in grado di migliorare il grado di attrattività delle località turistiche con effetti positivi sul mercato immobiliare e sui flussi turistici. Non trascurabile infine l’importanza della stagione estiva per la montagna, che risentirà positivamente, più che non l’inverno, degli effetti dei cambiamenti climatici. Glamping, villaggi vacanze, strutture per il benessere, parchi attrezzati per accogliere un turismo che sempre più dedica parte della propria vacanza alla pratica di attività sportive.

(L’intervista, di Alberto Beggiolini, è tratta dal recente volume “Il turismo di montagna: sfide e opportunità di un settore in trasformazione”, realizzato da TH Group, Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Scuola Italiana di Ospitalità – iniziativa di formazione di Fondazione Cassa Depositi e Prestiti e TH Resorts)

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