Da esperto di turismo (qualifica che penso immodestamente di essermi guadagnata, in 35 anni d’impegno come manager e imprenditore, scrittore e consulente) cercherò di spiegare due fenomeni collegati, ma non necessariamente connessi.

Primo, perché l’Italia è letteralmente invasa dai turisti stranieri. Secondo, perché l’industria turistica domestica, con tutto il suo indotto, non goda della simpatia né del Palazzo, né dei media, né del consumatore. Soprattutto in questa calda estate 2023.



Se le previsioni primaverili di Istat (relative alle “presenze dei clienti negli esercizi ricettivi italiani”) saranno confermate, il 2023 sarà il nuovo anno record del turismo in Italia: dai 437 milioni nel 2019 (record storico), crollate ai 289 milioni nel 2021 e risalite impetuosamente ai 403 milioni nel 2022, quest’anno le presenze potrebbero superare i 440 milioni. L’Istituto nazionale di statistica stima che nel 2023 “la clientela residente all’estero” tornerà a essere più numerosa di quella domestica, come accadde nel 2019, quando si registrò per la prima volta il sorpasso: 50,5% di stranieri contro il 49,5% di noi italiani. Ancora, Istat certifica che l’Italia si colloca al secondo posto tra i paesi dell’Ue, dietro solo alla Spagna, per numero di presenze straniere. E, infine, che solo la Spagna accoglie più stranieri di noi, in percentuale, mentre Francia e Germania arrancano molto dietro.



Riassumo alcuni dei motivi di questo invidiabile (per i nostri competitor) successo:

L’Italia è in cima alla lista dei desideri di 8 miliardi di terrestri. Non solo per la numerosità dei siti Unesco (formidabile strumento di marketing), non solo per la sua storia millenaria, non solo per la sua cultura e i suoi monumenti, non solo per la sua cucina e i suoi vini. Non solo, ma anche. Tutto questo fa sì che – da sempre – l’Italia sia un Paese dove tutti vogliono venire, almeno una volta nella vita. Cito il solo caso cinese: secondo McKinsey, tra il 2023 e il 2025 la Cina dovrebbe aumentare di oltre 71 milioni il numero delle famiglie “upper middle class”: ne consegue che la metà dei 400 milioni di appartenenti a questa classe avrà un potere d’acquisto rapportabile a quello dei Paesi europei, includerà i viaggi all’estero tra i propri consumi e inserirà l’Italia al top dei desideri. Se soltanto un centesimo di quei 200 milioni riuscisse infine ad arrivare fin da noi, il risultato è immaginabile.



Siamo uno dei Paesi più sicuri al mondo. Istat e Censis lo certificano da anni, a dispetto di media e social (che alimentano la sensazione opposta). Tutti i reati contro la persona sono in calo; a parte i dintorni delle stazioni ferroviarie (purtroppo), i centri storici di Firenze e Roma, Venezia e Milano sono frequentabili senza particolare apprensione. In rapporto alle grandi metropoli mondiali (Londra, Parigi, New York, la declinante – appunto per motivi di sicurezza – San Francisco), le nostre città godono di fama molto migliore.

Abbiamo imparato a gestire gli eventi epocali. Ne cito solo due, entrambi a Roma. A settembre 2023 la più importante manifestazione golfistica al mondo, la Ryder Cup, accoglierà 300mila spettatori, con una media di circa 50mila ingressi quotidiani al Marco Simone Golf Club. Il golf ha l’indotto più alto spendente di tutti gli sport non professionistici. La Santa Sede ha presentato il Giubileo 2025, sono attesi 32 milioni di pellegrini. Inevitabili sprechi e polemiche, ma Roma sarà per un anno il centro del mondo, per un miliardo e 400 milioni di cattolici. Infine, Roma si candida a Expo Universale 2030: la lezione di Expo 2015, che ha rivoluzionato Milano, è servita.

Viaggiare e dormire, mangiare e bere costa poco. Un Roma-Milano, con Italo, si trova a 19,90 euro, se acquistato con un mese di anticipo. Un Londra-Edimburgo in treno, sempre un mese prima, stessa distanza, parte da 85 sterline. Da noi il caffè al bar costa ancora 1 euro (magari in centro o all’Autogrill 1,30). Da Starbucks – anche a Milano, non a Seattle – un double costa 2,80 euro. Roma e Firenze hanno più attrattive di Londra e Hong Kong, e costano la metà. In più, accogliamo gli ospiti con calore e simpatia: in generale, salvo rare eccezioni, e questo ci viene universalmente riconosciuto.

Allora perché questo settore non è né amato, né considerato?

“Il turismo è una macchina da guerra economica straordinaria, qualcosa che, considerando l’indotto, sfiora il 15% del Pil” dichiarava a Il Sussidiario Marco Fortis, docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, lamentando però che “il turismo in Italia è spesso rappresentato come un settore che non fa quasi parte dell’economia, come qualcosa di folkloristico”. Due esempi dalla politica: l’ex ministro delle Finanze in tre Governi di centrosinistra, Vincenzo Visco, per il quale “l’industria turistica tira, ma vale poco. La maggior parte degli attori del settore turistico sono piccolissime aziende familiari, [mentre] i lavoratori hanno retribuzioni ancora al di sotto della soglia vitale”. “Con la cultura non si mangia”, celeberrima affermazione attribuita (ma da questi mai riconosciuta) a Giulio Tremonti, ministro delle Finanze e dell’Economia in più Governi Berlusconi

I media ci vanno pesante, soprattutto durante le vacanze: da “A Roma taxi introvabili a Ferragosto” a “Prezzi impazziti”, da “Crollo delle presenze in Sardegna” all’inevitabile “Il Governo intervenga”. Ovvio che il consumatore medio, fomentato da quello che vede e sente, si sfoghi sui social.

Per opportuna sintesi (il tema è assai complesso) mi limito a tre motivazioni.

Il settore dei servizi, del quale il turismo fa parte, è poco sindacalizzato, anche perché prevalente è l’iniziativa privata (catene alberghiere, società di trasporto, stabilimenti balneari, compagnie di navigazione, ecc.). Essendo poco sindacalizzato, è poco politicizzato e quindi “non utile” alla politica e ai partiti. Al contrario di un altro comparto simile, quello dei tassisti, che invece sindacalizzato lo è e quindi – quando si tratta di far valere le proprie istanze – trova sempre chi lo ascolta. Se a Roma scioperano i tassisti, si blocca la città; se scioperano le guide, la notizia finisce a malapena in cronaca locale.

Le rendite di posizione danno fastidio a tutti, ma la categoria sicuramente più deprecata, di questi tempi, è quella dei gestori di stabilimenti balneari. Grazie alla non applicazione della Direttiva europea riassunta come “Bolkestein” – per la quale le spiagge andrebbero assegnate con una gara aperta, pubblica e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi – i 7.173 stabilimenti balneari italiani (dati Unioncamere, 2021) godono di concessioni di lunga durata e canoni di affitto molto vantaggiosi. Certo, gioca a sfavore della categoria il fatto che l’attuale ministro del Turismo abbia fondato uno dei bagni più esclusivi della penisola, il Twiga Beach Club di Marina di Pietrasanta (LU), il quale – come testimoniato dal puntuale cronista del Corriere della Sera – “versa allo Stato (che poi sarebbe il demanio, ndr) 17.619 euro per la concessione annuale della spiaggia e ha un fatturato che oscilla tra gli 8 e i 9 milioni”. Ingiusto e iniquo, ma finché la Bolkestein non viene applicata, tant’è. Non leggiamo identiche levate di scudi per categorie anch’esse “protette”: i succitati tassisti, i notai, i farmacisti.

Infine, perché tanto disprezzo, che spesso diventa dileggio (se non gogna mediatica), nei confronti del bar che applica un supplemento di 2 euro per dimezzare un tramezzino o del ristorante che ha listini separati, per gli stanziali e per i turisti? Perché identico sdegno e disprezzo non vengono suscitati, per dire, dalle banche che guadagnano sugli interessi o dalle utilities che lucrano sulla guerra in Ucraina? Semplice, perché siamo passati dalla villeggiatura (lusso per pochi fortunati) alla vacanza di massa, “aggravata” dal portato della pandemia. Tradotto: ci siano convinti del fatto di andare in vacanza (in Sicilia, non a Ladispoli) come diritto inalienabile e irrinunciabile, come una sorta di “Ma io lavoro tanto, spendo tanto per fare la spesa e pagare le bollette, le vacanze non me le toccate, eh!”. E siamo ancora più convinti che lo Stato dovrebbe in qualche modo garantircelo, questo diritto, ovviamente punendo i reprobi (albergatori, compagnie low cost, gestori balneari e compagnia cantante) e facendo in modo che le nostre vacanze costino sempre lo stesso, nel 2023, nel 2024 e pure nel 2025. La vacanza è mia e me la gestisco io.

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