Il turismo sta conoscendo una stagione record, a livelli superiori a quelli toccati nel 2019, pre-pandemia. Nel trimestre estivo il sistema ricettivo italiano dovrebbe registrare 212,8 milioni di presenze, circa 12,5 milioni in più rispetto all’estate 2022 (+6,2%), con oltre 101,2 milioni di presenze da oltreconfine, +9,6% rispetto allo scorso anno e un valore più alto (+0,9%) anche di quello registrato nell’estate 2019. L’industria dell’hospitality è pronta, con facility innovative nelle prenotazioni, nei pagamenti, nelle soddisfazioni delle esigenze degli ospiti durante i loro soggiorni negli hotel e nelle destinazioni. Tutto quello, insomma, che contribuisce a creare le famose “esperienze”, ormai considerate fondamentali nella costruzione di emozioni e ricordi, e quindi strumento di amplificazione della customer satisfaction, che inevitabilmente inciderà nel successo degli arrivi prossimi venturi.
Ma è certo che, ancor prima dell’hospitality alberghiera, il turista in arrivo avrà a che fare con quella della località, un’ospitalità fatta di servizi, primo tra tutti i trasporti. Ci si può facilmente immaginare allora quale sarà stata la prima impressione di Roma, la prima “esperienza”, per la folla di persone ammassate pochi giorni fa a Termini, dove verso le 21 il piazzale-suk vedeva una massa incerta che cercava di capire come muoversi, visto che l’unica linea della metro chiude proprio a quell’ora, i servizi navetta sostitutivi non si scorgevano all’orizzonte (e nessuno sapeva dire come e quando), e i rari taxi che comparivano venivano contesi a duello da passeggeri inferociti. Stendendo un velo pietoso sulla gestione del trasporto pubblico capitolino di metropolitana e bus (un velo che prima o poi bisognerà pur cercare di alzare), resta ancora una volta da risolvere il nodo auto bianche.
La realtà è che mancano taxi, e mica solo a Roma. Secondo il Codacons a Milano ne servirebbero almeno 700 in più (a fronte di 4.900 licenze, lo stesso numero del 2006), e almeno mille a Roma (dove attualmente i taxi sono circa 7.600, un terzo rispetto a quelli che circolano a Parigi), ma ci sarebbe un gap del 20% circa in meno del fabbisogno in tutte le città d’arte, a vocazione turistica.
Ma perché mancano? Dunque: la legge quadro Taxi NCC del 15 gennaio 1992 n. 21 stabilisce che “sono definiti autoservizi pubblici non di linea quelli che provvedono al trasporto collettivo od individuale di persone, con funzione complementare e integrativa rispetto ai trasporti pubblici di linea ferroviari, automobilistici, marittimi, lacuali e aerei, e che vengono effettuati, a richiesta dei trasportati o del trasportato, in modo non continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta”. Allora, quello del taxi è un servizio pubblico, e come tale è soggetto a licenze, rilasciate dai Comuni, sulla base di concorsi organizzati dai regolamenti regionali. Ma i concorsi si svolgono assai, ma davvero assai raramente. Quindi la licenza solitamente va acquistata, a trattativa privata tra chi già ce l’ha (da almeno cinque anni) e chi la vorrebbe, e sembra che ci siano transazioni a valore tra i cento e i duecentomila euro. Un investimento importante, ed è evidente che tenere basso il numero di licenze significa aumentare il valore di quelle esistenti. Poi: in Italia (ma non in molti altri Paesi) la licenza è personale, cioè nessun conducente, tranne la persona a cui è intestata, può mettersi al volante di un veicolo per il trasporto di passeggeri. A Milano, però, dallo scorso aprile, i parenti di titolari di licenza potranno guidare la macchina del familiare, e il veicolo potrà essere in servizio fino a un massimo di 16 ore durante la giornata, con turnazioni estese.
Ma dunque, essendo un servizio pubblico, soggetto alle licenze comunali, è lecito chiedersi perché non si interviene moltiplicando i permessi? La risposta è una sola: per la forza delle lobby. Il settore è da sempre tra i più impermeabili alla concorrenza: l’anno scorso s’era fatto l’ennesimo tentativo, ma l’articolo del Ddl concorrenza che avrebbe introdotto una riforma della categoria dei tassisti e del noleggio con conducente fu stralciato all’ultimo momento, con soddisfazione dei sindacati e di tutta la corporazione, impegnata no stop (con manifestazioni eclatanti, a volte anche violente, e con la paralisi dei centri urbani) nel contrastare il rilascio dei permessi e la loro possibile liberalizzazione. Basti vedere la sorte toccata in Italia a Uber, finita ovviamente nel mirino dei tassisti, e costretta alla fine (come altre app di ridesharing) a rivolgersi solo autisti privati con licenza.
Nel mirino della taxi-lobby era finito anche l’obbligo ad accettare le carte di credito, e non per strane abitudini, ma soprattutto perché i tassametri non sono controllati dall’erario: se gli spostamenti fossero tracciati, i dati potrebbero poi finire in mani… fiscali. Ma il tassametro non è uno strumento fiscale, e anche le ricevute rilasciate dagli eventuali POS valgono solo come giustificativi per il cliente. Tutto questo mentre la Corte di giustizia dell’Unione europea, nei primi giorni di giugno, deliberando su una domanda interpretativa, ha stabilito che “le norme che impongono un numero massimo di licenze taxi sono illegittime, qualora la giustificazione fondamentale sia quella di proteggere la praticabilità economica del servizio: cioè il reddito dei tassisti oppure il valore delle licenze”.
La Corte Ue s’è pronunciata su un caso sollevato a Barcellona, ma le sue conclusioni sono valide nell’intero territorio dell’Unione. Nel prossimo futuro italiano, però, nonostante la deliberazione europea, non sono prevedibili sostanziali modifiche, in una sorta di resistenza passiva pari a quella già adottata dall’Italia nel recepimento della Bolkestein, che vuole (vorrebbe) la messa a gara delle licenze balneari. Tassisti e balneari, insomma, sembrano oggi i veri corpi intermedi capaci di creare indirizzo o mantenere lo status quo, in un perenne assedio alla capacità decisionale della politica, sempre sensibile a potenziali bacini elettorali strutturati. Non sembrano, questi, esempi virtuosi da mutuare, almeno non in barricate a difesa di obsolete rendite di posizione, ma dimostrano che la compattezza di un comparto può incassare risultati sensibili.
E quindi, tornando al caos di Termini, se anche l’industria del turismo riuscisse a coagulare tutti i suoi frammenti e a promuovere iniziative condivise, probabilmente riuscirebbe a superare tante impasse, e a far sì che i servizi pubblici venissero almeno aggiornati alle esigenze odierne. Perché è inutile, se non peggio, far arrivare e muovere così tanti viaggiatori e poi abbandonarli al loro destino in un girone infernale come quello romano di poche sere fa.
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