La responsabilità civile si riferisce alla responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), che è quella che sorge in capo alle parti stipulanti un contratto, un negozio giuridico (artt. 1321 e ss. c.c.); nello specifico essa concerne le obbligazioni, ossia i diritti e gli obblighi che sorgono in capo alle parti contrattuali; o alla responsabilità extracontrattuale da atto illecito ex art. 2043 c.c. che dice che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
La responsabilità penale è quella che si occupa di determinate azioni od omissioni che configurano nel nostro codice penale un fatto di reato.
La responsabilità civile comporta, di norma, il risarcimento del danno; quella penale una pena detentiva e/o pecuniaria.
Vale la pena ricordare brevemente i cardini dell’impostazione giuridica che definisce il concetto di “responsabilità”. Riferita stavolta non a particolari inadempienze del fornitore di servizi, ma alla possibilità che un cliente risulti contagiato da Covid-19 durante un soggiorno in una qualsiasi struttura ricettiva (alberghi, stabilimenti balneari, rifugi e via dicendo). Ovvero: se da un qualsiasi test clinico effettuato nella struttura o in presidi sanitari di quella località di villeggiatura dovesse risultare una positività, il soggetto interessato potrebbe rivalersi sulla struttura stessa, vocando la mancanza dell’applicazione delle regole di precauzione indicate (che peraltro ancora non ci sono) probabilmente da Iss e Inail. Sembra incredibile, ma è questo l’ennesimo incubo che sta guastando il sonno degli operatori, un incubo non proprio infondato.
“Gli imprenditori hanno riaperto assumendosi tutta la responsabilità”, ha detto, amaro, il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Ma se per una fabbrica o in generale un opificio si possono in qualche modo applicare le famose “tre t” (testare, tracciare, trattare), sembra davvero difficile rispettare le medesime regole in un villaggio turistico o in una spiaggia con la tranquillità di non rischiare multe e fedina penale.
Federalberghi ha già chiesto un “ombrello” normativo per evitare richieste di risarcimento in caso di contagi in albergo, ma nessuno ancora ha risposto. “L’ombrello” chiesto da Federalberghi, ovviamente, dovrebbe essere esteso a tutta la filiera del turismo, dalla ricettività ai pubblici esercizi agli stabilimenti in concessione demaniale. Numerosi legali però concordano: come si fa a dimostrare che quel cliente si è infettato all’interno dell’albergo e non invece per strada, o al ristorante o al bar?
“Un riferimento importante, di valutazione dell’operato di ciascun imprenditore, è l’attuazione di specifici protocolli redatti dalle organizzazioni imprenditoriali. Essi descrivono le buone pratiche da porre in essere. La loro attuazione, affinché sia positivamente apprezzata, non necessita di approvazione o adozione da parte di una Autorità. Il ‘Protocollo Nazionale – Accoglienza Sicura’ del 27 aprile 2020, redatto da Confindustria Alberghi, Federalberghi e Assohotel è senz’altro un riferimento essenziale a tal fine. Esso deve essere assunto a riferimento operativo sin da subito”. È la nota elaborata dallo studio legale Pavirani & associati per Federalberghi. Ma nonostante qualsiasi parere, malgrado ogni buon senso, resta l’incertezza data dalla mancanza di una parola definitiva in materia da parte del Governo.
Così come mancano ancora sicurezze sulle date per gli spostamenti consentiti tra regioni, sulle norme di distanziamento sulle spiagge (faccenda non da poco: se tra ombrelloni saranno sufficienti tre o quattro metri si potrà provvedere, se saranno di più molti gestori rinunceranno ad aperture in perdita), sulle regole nella ricettività. Il tutto mentre – secondo un recente studio di Demoskopika – 40 mila imprese del turismo stanno rischiando il fallimento: già nei primi tre mesi del 2020 (all’inizio della pandemia) si sono registrate mille mortalità imprenditoriali turistiche in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
“È una situazione surreale – commenta Barbaba Casillo, direttrice di Confindustria Alberghi -. In questa situazione opaca, di assoluta mancanza di chiarezza su regole e tempi, e con la prospettiva di dover anche far fronte alle eventuali responsabilità in caso di contagio di personale e clienti, credo che difficilmente un imprenditore se la sentirà di riprendere la sua attività. Mentre il 96 per cento dei dipendenti delle strutture ricettive resta ancora in cassa integrazione, con conseguente aggravio per le casse di uno Stato incapace di fornire una rotta per la riapertura”.
Ci saranno “cicatrici permanenti”, avvisa l’Unione europea. Purtroppo in Italia il turismo sembra destinato, più che a cicatrici, a ferite con poche probabilità di qualsiasi rimargino.