Comincia con uno strappo che sembra impossibile ricucire, una lacerazione come quelle ormai troppo consuete nella società odierna. Le pagine di Roberta Recchia, nel suo sorprendente primo romanzo Tutta la vita che resta (Rizzoli, 2024) ci catturano a tal punto che non possiamo interrompere la lettura finché non arriviamo all’epilogo rasserenante. È la storia di Marisa e Stelvio Ansaldo, che si snoda dagli anni 50 agli anni 80 del secolo scorso, tra Roma e il litorale laziale. Divisa in due parti: “la vita di prima” e quella dopo la tragedia, che spezza una famiglia e la trascina in un vortice di dolore, narrato però con grande pudore e che troverà misteriosamente la strada della rinascita. Storia di madri e di figlie, con i conflitti tra generazioni e un trauma terribile che sembra separarle irrimediabilmente.



Marisa, ragazza bellissima, rimane incinta e viene abbandonata dal fidanzato ricco ma egoista. Il futuro radioso che i suoi genitori hanno sognato per lei sembra già incrinato, anche perché lei il bambino – che comunque perderà – lo vuole tenere. Eppure l’inaspettato matrimonio con Stelvio, un giovane serio e desideroso di prendersi cura di lei, già mostra la sorpresa del destino capace di cancellare le vergogne e ricostruire con il vero amore. La coppia sarà allietata dalla nascita di due figli, il saggio Ettore e l’esuberante e affascinante Betta. Vivranno felici fino a quando la tragedia della morte della figlia paralizzerà il loro amore e sconvolgerà anche la placida, privilegiata esistenza della nipote Miriam, che quella notte tremenda era con Betta e l’ha vista morire senza riuscire a dirlo a nessuno. Il suo mutismo e l’apparente reazione indifferente la distruggeranno nell’intimo, portandola alla deriva.



Roberta Recchia descrive con estrema delicatezza le violenze fisiche subite dalle due cugine e soprattutto quelle psicologiche, che spezzano i legami familiari e bloccano ogni possibilità di dialogo. Un campanello d’allarme tanto più significativo per il mondo attuale, dove tra generazioni diverse non si parla più. Tutte le famiglie oggi vengono definite “normali”, ma troppe sofferenze restano nascoste per poi esplodere inaspettate e tanto più crudeli. E se non riescono ad emergere scavano abissi nel cuore che è sempre più difficile affrontare.

L’invito della scrittrice si esprime proprio in una domanda rivelatrice del romanzo: “Arriverà il momento in cui sapremo che tutta l’ingiustizia, la sofferenza, non sono state che un insignificante granello nel perfetto equilibrio delle cose?”. È un’esortazione a riconoscere il dolore, a condividerlo per poterlo accettare e imboccare la via di una possibile ripartenza.



I legami familiari, l’affetto reciproco e il coraggio della verità devono andare perciò oltre l’apparenza, perché solo l’autenticità può ricostruire un percorso di amore. Lo dimostra il difficile cammino di Miriam, che la madre Emma in realtà non conosce affatto, distratta com’è dalla sua vita di donna in carriera, e che la rigida nonna Letizia, così rispettosa delle forme, pensa di proteggere con un’omertà silenziosa. Sarà invece l’improbabile e fortuito incontro con il borgataro Leo, un ragazzo certo non immacolato, ma capace di attenzione, tenerezza imbarazzata e persino amore incrollabile, ad offrire una possibilità di salvezza alla ragazza tormentata. E anche la tenera e sofferente figura della “sorella” Corallina, dall’identità confusa, darà il suo contributo per risvegliare la speranza in Miriam.

Insomma, non sempre il mondo borghese sa sfondare le barriere del silenzio e dell’ipocrisia, e forse la semplicità popolare è in grado di comprendere, sostenere e donare con più coraggio quello sguardo di accoglienza e sincera affezione di cui ciascuno di noi ha bisogno per continuare a guardare avanti con fiducia. Perché “la vita resta”, come recita acutamente il titolo del libro, solo grazie all’amore autentico, che addirittura salva. Ma il cuore grande lo troviamo solo tra la gente più umile? Recchia afferma in un’intervista che “di fatto Leo e Corallina, con la loro vita di borgata, mostrano una generosità spontanea che si contrappone nettamente all’aridità dei sentimenti che caratterizza la famiglia agiata di Miriam”. Le pagine del romanzo scorrono veloci anche perché la prosa dell’autrice è fluida e coinvolgente e i personaggi, così ben caratterizzati, ci accompagnano con la loro vivezza nel corso di eventi drammatici, ma pure dolcissimi.

Non ci stupisce che il libro sia in corso di pubblicazione in 15 Paesi, tra cui Regno Unito, Francia e Spagna. Un caso letterario, potremmo dire, tanto più interessante perché sa parlare a figli e genitori, di cui sembra conoscere bene virtù e fragilità. Il messaggio è quello di “non sentirsi soli davanti ai momenti di inadeguatezza”. I genitori pensano di sapere tutto dei loro figli, ma gli adolescenti (e quanto dura l’adolescenza oggi?) hanno sempre zone d’ombra. Basta un momento di disattenzione, e comunque la maternità certamente non può ridursi a generare un figlio. Nella vita c’è anche tanta sofferenza. Un figlio che perde i genitori diventa “orfano”, mentre per i genitori che perdono un figlio non esiste un termine. In realtà, come mostra la storia di Marisa, il figlio perduto resta sempre nell’intimo della madre, al punto che può renderla capace di amore nuovo per gli altri, come accade proprio a lei con Miriam e Corallina. Sono queste le riflessioni, e tante altre, a cui ci apre il romanzo di Roberta Recchia: una ventata di delicata speranza per guardare al dolore in modo nuovo.

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