In questi giorni, oltre a Caporetto, viene molto evocato l’8 settembre. Il “tutti a casa” decretato dal governo Conte suona certamente grottesco rispetto alla grandezza tragica del film di Luigi Comencini, interpretato da due giganti come Eduardo De Filippo e Alberto Sordi. Però la realtà del 1943 non fu molto diversa da quella che tutti noi stiamo vivendo nell’Italia di 77 anni dopo.



L’Italia – oggi isolata dal mondo – si ritrovò allora invasa, occupata, assediata su ogni confine. Era in ginocchio: aveva perso la guerra voluta dal regime fascista. Già prima dello sbarco alleato in Sicilia (il primo nell’Europa nazifascista) molti – soprattutto nella classe dirigente economica – cominciarono a muoversi per evitare al Paese l’annientamento totale, il destino che il fanatismo psicopatico di Hitler inflisse invece alla Germania.



Quello che accadde nella lunga estate del ’43 è noto: è insegnato nella scuola dell’obbligo. Re Vittorio Emanuele III – formalmente Capo dello Stato – era molto esitante a prendere l’iniziativa: capiva che con la conclusione del ventennio fascista segnava anche un capolinea suo personale e per la monarchia sabauda (ciò che avvenne puntualmente alla fine della guerra, non prima che anche una figlia del re morisse in un lager)

Il regista della svolta fu un fascista laico, di cui Mussolini aveva sempre diffidato: Dino Grandi, a lungo ambasciatore a Londra e presidente della Camera (sopravvissuta anche se non più elettiva). Fu lui a promuovere l’anti-colpo di Stato del 25 luglio. Di fronte al rapido precipitare della crisi (Roma venne per la prima volta bombardata) Mussolini non poté più evitare una resa dei conti nel Gran Consiglio del Fascismo, il politburo del regime. Lì il premier-duce fu messo in minoranza da un ordine del giorno che chiedeva al re di ripristinare principi e garanzie dello Statuto albertino. Mussolini fu arrestato e sostituito come premier dal maresciallo Pietro Badoglio. Questo servì a negoziare un armistizio con la coalizione alleata.



Un errore di comunicazione (un leak molto probabilmente voluto dagli alti comandi angloamericani) spinse il re e Badoglio, la mattina dell’8 settembre, a fuggire immediatamente: prima a Pescara e poi a Brindisi. Storici e memoria collettiva sono concordi: rimane quella – almeno finora – la giornata più nera in 159 anni di storia unitaria. Il re e il premier di un’Italia in dissoluzione non furono neppure contrastati dai nuovi nemici tedeschi, salvo che venire inseguiti dal loro disprezzo. I massimi responsabili istituzionali del Paese abbandonarono la capitale e decine di milioni di cittadini a un destino per tutti difficilissimo, per molti tragico, anzitutto al Centro-Nord.

Il re e Badoglio anteposero ogni interesse privato a qualsiasi preoccupazione pubblica, cui pure erano istituzionalmente chiamati. Decisero che l’Italia come Stato unitario non esisteva più. Per un anno e mezzo il Paese fu spaccato: fra un governo del Sud praticamente fantoccio dei liberatori angloamericani; la Repubblica sociale, fantoccio degli occupatori tedeschi al Nord; e la presenza di varie organizzazioni partigiane, più o meno coordinate da un Comitato di liberazione nazionale.

Solo nel giugno 1946, l’Italia tornò a essere un Paese veramente unito, una nuova Repubblica sotto la sovranità di un’assemblea costituente democraticamente eletta.

L’Italia odierna sembra per molti versi quella del luglio 1943. Sembra aver bisogno di un 25 luglio. Anche per evitare – stavolta – un altro 8 settembre.

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