Abbiamo fatto loro la sgarbatezza più grande costruendo i capitelli, per poi trasformarli in galere dove ficcarli dentro. Noi, cristiani devotissimi, abbiamo fatto ai santi la villanata più grande, pensandola cortesia: li abbiamo blindati dentro delle cavità, dietro vetri anti-sfondamento, chiusi a chiave, che nessuno li tocchi o rubi loro l’oro che hanno al collo come ex-voto. Non c’è nulla come i capitelli – eretti su di un colle, all’incrocio di una vallata, dentro le navate di una chiesa – che tradisca i santi: fosse reato, il cristiano verrebbe accusato di sequestro di persona (santa). O, di appropriazione indebita di storie altrui: perché i santi non sono proprietà privata nostra da poterne fare l’uso che vogliamo, sono proprietà esclusiva di Dio: sequestrarli significa dover fare i conti con Dio stesso. Proprio loro, i santi, ci siamo messi in testa di blindarli dentro queste cavità: proprio chi, in vita, ha fatto della strada il suo salotto si trova, da santo, a vedersi portato via dalla sua terra preferita, la strada per l’appunto. A vedersi intoccabile per quella gente che, in vita, ha adorato: quelli delle strade e dei vicoli. Che sgarbatezza!
Li abbiamo messi lì non certo per villaneria, ma per un tocco di furbizia: se li lasciassimo liberi di scorrazzare per le strade di paese, sarebbero un pungolo troppo forte ai nostri cuori divanoletto. “Ehi, amico – direbbero al sottoscritto – che pensi? Che io sia nato santo? Bella scusa! Forza, datti da fare: che io, nel frattempo, ti racconto la mia storia in modo che tu capisca che anch’io ero come te, come lui, come tutti”.
A noi invece, piace credere che i santi siano nati santi, che sia stata data loro la possibilità di scansare il vivere umano, con le sue alte-basse maree. Ci è comodo dire: “Mica son un santo!” per sgattaiolare via. i santi, da vivi, eran santi. Coloro che, senza immaginarlo, lo divennero da morti, avessero loro chiesto informazioni in merito non avrebbero esitato a narrare il lato più crudo della loro storiaccia: “Vorrei che si scrivessero i difetti dei santi e quanto essi hanno fatto per correggersi – scrisse Bernadette Soubirous – ; ciò ci servirebbe assai più dei loro miracoli e delle loro estasi”. Detto da un pezzo da novanta come lei.
A noi, che siamo quelli dei capitelli, ci interessano invece le estasi, le apparizioni, le lievitazioni. Andiamo matti per il soprannaturale, gli effetti speciali, maciniamo chilometri per veder pianger le madonne, visionare le giravolte dei santi: c’interessa tanto lo straordinario che a volte ci arrischiamo a dire che sono santi dei poveri diavoli da cabaret. I santi, invece, non hanno fatto nulla di straordinario: hanno fatto in maniera straordinaria le cose ordinarie. Nei capitelli soffrono assai: manca loro la vita all’aria aperta. Che ingiustizia!
Io, anziché nei capitelli, i santi li posizionerei nelle rotonde delle strade, al posto dei segnali stradali. Questi ultimi, i segnali, sanno sempre dirti dove devi andare, ma loro in quei posti non ci son mai andati. I santi, invece, prima di dirti dove andare, ci sono già andati loro: e, siccome ci sono già stati, ci aspettano all’incrocio per poi prenderci la mano, accompagnarci di persona. Sono lampioni nelle strade fosche, perché, per loro, “è meglio illuminare gli altri che brillar solo per se stessi” (Tommaso d’Aquino).
Oggi è la loro festa: e noi, per l’occasione, tiriamo fuori le reliquie dalle casseforti, apriamo i capitelli, tiriamo via le ragnatele dagli altari. Poi, all’ora del vespro, li richiudiamo: “Fine dell’ora d’aria!” diciamo loro come lo si urla nelle patrie galere. Peccato trattare così i santi, finendo per abbassare l’asticella: “Quello? È un mezzo santo!” diciamo di qualche anima pia. Badate che non è un complimento: “Non si può essere mezzo santo. O si è un santo intero o non lo si è” disse Teresa di Lisieux. La stessa che giurò che basta uno spillo raccolto da terra con amore per salvare un’anima. Sembra fin troppo semplice, per noi intelligenti, la santità. Meglio ficcarla dentro i capitelli, così che non ci disturbi più d’una giornata all’anno. Che, per caso, non ci ricordi che anche noi possiamo diventare come loro. Ci toccherebbe alzarci dal divano.
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