“Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza” dice Daniele, il protagonista della serie Netflix in sette episodi tratta dal romanzo vincitore del Premio Strega Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli. E’ una storia autobiografica, una settimana che l’allora ventenne futuro scrittore passò al TSO, Trattamento sanitario obbligatorio, una sigla che incute timore ma soprattutto sconosciuta ai più, quello che resta degli antichi manicomi dove si veniva rinchiusi anche a vita, aboliti dalla Legge Basaglia a fine anni ’70. Ci sono però casi estremi, spesso di violenza, che giustificano questa sorta di prigionia sanitaria, quando si diventa pericolosi per se stessi e gli altri. Durano una settimana, possono essere prolungati in casi particolari, ci si torna spesso. Non servono a guarire il paziente, solo a individuare il tipo di percorso medico che dovrà, se vorrà, affrontare.



Nonostante a tratti la serie Netflix di cui è regista Francesco Bruni e bravissimo protagonista il giovane Federico Cesari tenda a volte a scivolare in un facile sentimentalismo, con molti luoghi comuni non sempre corrispondenti alla realtà di quei giorni di inferno che sono i TSO, la serie come lo splendido libro di Mencarelli ha il merito di portare in primo piano la malattia mentale, oggi diventata la malattia più diffusa al mondo, e allo stesso tempo le pochissime risorse mediche a essa dedicata dalla sanità. Dottori e infermieri abbruttiti dalla mole di lavoro per carenza di personale soprattutto specializzato sono ottimamente descritti, uomini e donne “sull’orlo di una crisi di nervi” perché affrontare quotidianamente questo tipo di pazienti è un carico immenso e devastante che può portare anche loro in situazioni borderline e non basta, come dice uno di loro, “staccarsi emotivamente e affettivamente dal paziente”.



Altra cosa che la serie porta giustamente in evidenza è come la malattia mentale nasca e si sviluppi sempre nel contesto familiare: Gianluca, ragazzo gay che si lancia in assurde esagerazioni del suo ruolo per nascondere il lancinante bipolarismo, frutto di una malsana relazione con il padre autoritario generale dell’esercito che non evita mai di mostrargli quanto lo disprezzi; Mario, ex maestro elementare che ha cercato di uccidere moglie e figlia che non ha mai superato il trauma di una madre inaffettiva; Giorgio, gigante pauroso e impaurito che ha visto morire la madre quando aveva 10 anni ed è rimasto in uno stato di infantilità perenne e terrorizzata; Madonnina, che vive nel suo buio e che si nasconde a ogni contatto umano; Nina, l’influencer che la madre stritola perché abbia sempre più successo. E il protagonista Daniele, che porta dentro di sé una rabbia feroce, di cui perde il controllo, aggredisce i genitori sotto l’effetto della cocaina. Diventa immediatamente un cattivo, un balordo per tutti, un asociale, ma lui si porta dentro un desiderio infinito di pienezza, di risposta davanti alle assurdità che la vita quotidiana e il mondo gli mettono davanti tutti i giorni e a cui non riesce a dare sfogo: “Mi fate schifo” urla ai genitori.



I protagonisti della camerata del TSO diventano l’emblema di una malattia diffusa in tutti gli strati sociali, in tutte le famiglie, un disagio psicologico ma anche sociale, che tutti portiamo dentro ma che solo pochi “soffrono”. E cerchiamo di allontanarli, di dimenticarli, di etichettarli come “gente strana” che sa solo lamentarsi, a cui ci si rivolge con un infastidito “edattiunacalmata”. Un po’ quello che tutti abbiamo visto durante il Grade Fratello Vip: gente che ci dà fastidio e “che vada a curarsi alla neodeliri”. I malati di mente, per la società, sono macchinari sfasati da riparare e riportare sul giusto percorso della produttività: contemplare i limiti della propria esistenza è considerato malattia. Ma come dice Mario, noi viviamo con la nostalgia di quel che abbiamo perduto, il paradiso. È per questo che ci commuoviamo davanti a ogni cosa bella, perché sentiamo la nostalgia della bellezza da cui proveniamo. Un ricordo sgranato che la società non accetta, segno di una verità, la parte di sé più vitale e dolorosa, umana.

Succede così che nella convivenza forzata gli abitanti di quella camerata si scoprano amici, solidali, capaci dii sostenersi a vicenda, anche se non mancano i limiti e i tradimenti perché ogni storia ha un suo dolore. Quando uno di loro cade dalla finestra, l’unica cosa che sanno fare è inginocchiarsi e pregare per lui. Come dirà Daniele, “quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare”.

Non ci si salva da soli e solo guardando coraggiosamente nel proprio buco nero c’è la possibilità di uscirne. Magari continuando a zoppicare: la malattia mentale non ci lascia, ma si può conviverci.

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