C’era da aspettarselo: Twitter ha detto no a Elon Musk. Si comincia con la “poison pill”, una misura difensiva per rendere estremamente onerosa la scalata di Musk. Ogni azionista, escluso Musk, avrà il diritto di acquisire nuove azioni ad un tasso scontato, in modo da diluire l’interesse di Musk nell’operazione. Difficile pensare che Musk non lo abbia previsto. Ora si tratta si aspettare le sue mosse, mentre il mondo liberal, padrone della correttezza politica, si indigna e attacca il nuovo nemico pubblico.
Ne abbiamo parlato con Chris Foster, ex trader di lunga esperienza, attentissimo a quello che si muove nella Silicon Valley.
Foster, Musk si compra davvero Twitter?
Mi permetta di dire che la vera notizia alla quale nessun commentatore fa cenno è la seguente: un imprenditore di successo, pulito e con curriculum stellare, annuncia di comprare una piattaforma social che vale 1/10 degli users di Facebook aspirando a proteggere “free speech in America”, e genera reazioni isteriche di sdegno e preoccupazione per i rischi che la libera informazione, e quindi la democrazia, sta correndo. In un mondo in cui Mr. Bloomberg controlla e manipola l’informazione globale e in cui Jeff Bezos si è comprato il Washington Post…
Ma secondo lei, Musk vuole fare concorrenza all’altro bad boy della Silicon Valley, Zuckerberg?
Forse sì. Non ha mai amato Facebook né i leaders degli altri tech giants. Non si vede in competizione con loro. E Musk era stato sì adottato dalla California, ma ormai ha ben poco in comune con quella comunità “tech” culturalmente appiattita sulle stesse posizioni progressiste da anni e senza dibattito.
Alcune domande ovvie: perché? Perché adesso? Quanto spera di guadagnare?
Innanzitutto, Twitter è un social media fondato da Jack Dorsey, un personaggio geniale della Silicon Valley che però è ormai solo un piccolo azionista e ha deciso di concentrarsi sulla sua seconda creatura tecnologica, Square (SQ) che recentemente ha cambiato nome in “Block”, società nel settore dei pagamenti digitali. Block sta sviluppando una potente piattaforma per combinare tali pagamenti con la tecnologia della blockchain.
Ci fa un rapido ritratto di Dorsey?
Dorsey è un imprenditore visionario, da un lato è un acerrimo sostenitore della libertà nei sistemi di pagamenti e quindi della DeFi, decentralized finance, una visione molto osteggiata dall’amministrazione Biden, in altre parole della libertà assoluta di utilizzare valute alternative e parallele a quelle tradizionali gestite dalla banca centrale, come anche crede Musk. Dall’altro, è invece un sostenitore dei valori più radicali del progressismo americano (liberal values): ha portato Twitter ad adottare metodi di selezione dei contenuti di tipo censorio e fortemente discrezionale nei confronti di visioni politiche e sociali di matrice conservatrice.
Come fondatore, azionista e CEO era suo diritto scegliere la “linea editoriale” progressista di Twitter, o no?
È un punto complesso, su cui il dibattito non sarà mai troppo approfondito. Purtroppo se ne parla poco, soprattutto sul web, chissà perché: se Google-YouTube e Facebook-Instagram o Twitter dovessero essere considerati gruppi editoriali come Reuters, Fox, Warner Bros, eccetera, diventerebbero potenzialmente responsabili dei contenuti che pubblicano. Chiaramente, questo non sarebbe sostenibile da nessuno tra gli internet giants. Questo può anche spiegare perché FB è diventata in pochi anni una società da mille miliardi di dollari – oggi scesa a 570 miliardi di dollari – mentre Reuters, Fox, Paramount insieme valgono solo 100 miliardi. E Facebook non produce nemmeno contenuti…
E quindi?
Quindi, ci troviamo in una situazione paradossale in cui ormai gran parte dell’informazione passa quotidianamente da piattaforme non regolate (con ovvi benefici per le piattaforme ma in teoria anche per i fruitori finali), in situazioni di monopolio di fatto, che però operano vere e proprie censure e interventi discrezionali ad hoc di tipo editoriale. Come farebbe un quotidiano o un telegiornale.
Censura? È la parola giusta?
Negli ambienti che contano, si chiama “content moderation”. Gli americani sono imbattibili in queste definizioni. Come “hate speech” per classificare affermazioni diverse da quelle in linea con il mainstream.
E cosa c’entra Musk con questo?
Elon vuole ridurre la “content moderation” su Twitter, e ha parlato apertamente di “defending the free speech in the US”. Lo sente come una missione.
Si metterà nei guai.
Sì, è un tipo geniale che tende a mettersi nei guai. È anche un furbetto e un provocatore, quindi bisogna usare prudenza nell’interpretare i suoi discorsi e la purezza dei suoi ideali. Personalmente tendo a credere nella genuinità del suo spirito libertario, che è l’opposto di “liberal”, per Musk.
In che senso?
La cultura liberal americana si è spinta così in là nella ricerca del dominio culturale che ora necessita del controllo assoluto anche dei social media per continuare a crescere. Non bastano più scuole, tv e giornali. Questo è diventato intollerabile per Musk, che vuole intervenire direttamente. E per gente come Peter Thiel.
Thiel?
Sì, uno dei venture capitalists più di successo nel mondo tech. Personalità difficile, pieno di sé, ma i suoi successi parlano da soli. Cofondatore di PayPal, tra i primi investitori in Facebook, ha capito presto che Zuckerberg aveva una marcia in più, ma ha lasciato il board un anno fa e ha fondato e quotato la società Palantir, che fornisce a privati ma soprattutto governi servizi di data mining, big data analysis, e applicazioni di Artificial Intelligence a settori sensibili quali la Difesa.
La differenza tra i due?
Peter Thiel ha posizioni simili a Musk, ma al contrario di Musk, che rimane un imprenditore estroverso e creativo, un “serial gambler”, Thiel è un investitore-filosofo introverso e poco “approachable”. È ancora più odiato di Musk perché ha esplicitamente supportato Trump e i repubblicani sei anni fa: peccato mortale dalle parti di San Francisco.
Thiel potrebbe unirsi a Musk?
Sì, ma indirettamente, su una visione della società – e quindi del web – alternativa a quella decisa dalla classe dirigente liberal di Washington e Silicon Valley. Ambedue saranno molto visibili nei prossimi due anni, credo, sullo sfondo dell’agone politico. È una sfortuna, questa visibilità.
Perché?
Perché i personaggi che davvero controllano i flussi di informazione “sensitive” riescono a esercitare tale controllo senza apparire. Qualcuno sa dirmi chi seleziona e censura i video di contenuto politico di YouTube?
Quindi lei sostiene davvero che Musk è mosso da genuina passione per la libertà?
In generale sì. Passione e una buona dose di narcisismo, ambizione smodata, condita da spirito di rivalsa verso quella società californiana che lo ha prima osannato come il profeta della mobilità green per benestanti – vedi Tesla: auto cool, sportive e soprattutto molto care, fino a 10 anni fa – e poi lo ha abbandonato brutalmente, additandolo come un irresponsabile provocatore, come ho scritto. Forse anche verso l’ipocrisia di Wall Street che lo ha sempre sottovalutato, pur sventolando la propria bandiera ambientalista ai quattro venti sui tetti di Manhattan. Non a caso Twitter ha nominato Goldman e JPM come advisors per difendersi dalla scalata di Musk.
Cosa succede ora?
Musk ha fatto un “filing” alla SEC in cui formalmente annuncia un’offerta sulla totalità delle azioni di Twitter per portarla “private”, cioè fuori dalla borsa.
Perché questa mossa?
Perché sa che per aggiustare il suo nuovo giocattolo – Twitter – serve tempo e libertà di azione. Come società quotata, sotto lo scrutinio dei media, del regulator – la SEC – e degli analisti di Wall Street, sarebbe un lavoro estenuante e probabilmente impossibile. Meglio lavorare fuori borsa per ristrutturare Twitter.
Ce la farà?
Secondo me no. Il board rifiuterà formalmente l’offerta, userà una poison pill e molti azionisti istituzionali non accetteranno poi comunque di consegnare le azioni per una scelta fondamentalmente politica. A costo di danneggiare la maggior parte degli azionisti.
Allora non è un copione difficile da immaginare.
Si sta già alzando un’ondata di sgomento, preoccupazione e persino sdegno di fronte al rischio che uno dei media più usati dalla classe dirigente possa finire in mano a un personaggio che parla di “free speech” e “less content moderation” sulla piattaforma. Mi aspetto dimissioni di parte del board e del management nel caso caso in cui l’offerta prosegua con chances di successo. Il miliardario democratico Michael Bloomberg, attraverso la sua società, ha già intensificato la sua battaglia personale contro Musk, in corso da anni. E i vari NYT e WaPo sono già in trincea per difendere la democrazia sotto assedio.
E se la società diventasse “private”, nelle mani di Musk, sarebbe più profittevole e quindi alla fine un buon investimento per lui?
Innanzitutto, a oggi, Musk ha già guadagnato dal suo recente investimento in Twitter. Ho qualche dubbio per il successo di lungo termine. Certo, mi aspetto che Elon farebbe una gran pulizia e un radicale cost cutting, cosa necessaria, in una società che è stata gestita malissimo da Dorsey e dal suo team. La capitalizzazione di borsa è di soli 34 miliardi di dollari, poco più della metà di Snapchat!
Quindi male con Dorsey negli ultimi anni; e Musk riuscirebbe a creare valore?
Se il tema “free speech” dovesse tradursi in una maggiore presenza di voci e temi cari al fronte libertario-repubblicano, immaginerei che molte aziende, politici e celebrities boicotterebbero Twitter. Con conseguenze economiche gravi. Quindi con “less content moderation” – cioè meno censura e più libertà di parola –, Twitter sarebbe punita con meno pubblicità, come osserva anche il Wall Street Journal in questi giorni. Welcome to free America.
(Federico Ferraù)
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