Cinque agenti di polizia di Memphis hanno ucciso brutalmente un altro giovane afroamericano, Tyre Nichols, 29 anni, morto in ospedale in conseguenza delle brutali percosse cui era stato sottoposto il 7 gennaio scorso. La protesta e l’indignazione dell’opinione pubblica si è sollevata però solo venerdì 27 gennaio con la pubblicazione del video di quattro minuti realizzato dalle videocamere indossate dagli stessi poliziotti sulle loro divise che ha reso manifesta la brutalità del pestaggio. Tre minuti di violentissime percosse che hanno poi causato il decesso per un’emorragia cerebrale.
La pubblicazione del video è stata immediatamente seguita da manifestazioni di protesta degli afroamericani nelle principali città degli Stati Uniti, riportandoci indietro di due anni, ai tempi dell’uccisione di George Floyd e delle forme di protesta sostenute dallo slogan “Black Lives Matter”, le vite dei neri contano. Una cosa che colpisce in questo ultimo episodio è che anche tutti i poliziotti colpevoli sono afroamericani e che gli stessi hanno la stessa età della vittima, sono giovani dai 24 ai 32 anni. Facevano parte (ora sono stati licenziati) di una delle squadre speciali chiamate Scorpion, creata per reprimere i crimini violenti.
Ora simili reiterati episodi non si possono più circoscrivere a una dinamica sociale conflittuale di bianchi contro neri, ma si tratta di una realtà più complessa, forse definibile come il conflitto tra i presunti diritti dell’ordine opposti al presunto disordine, senza possibilità di riscatto per chi è accusato di transigere la legge, specie se appartenente a una classe sociale tra le più deboli, quale quella dei neri o degli ispanici. Queste comunità già soffrono per un endemico livello interno di violenza. Non a caso un mese fa in un’inchiesta del suo magazine il New York Times aveva messo in luce che le morti dei giovani per arma da fuoco tra la popolazione dei neri e degli ispanici superano in percentuale di gran lunga quelle tra la popolazione bianca.
Quest’ultimo fatto di violenza da parte di agenti di polizia, che mette a nudo le contraddizioni della società americana, ci dà l’occasione di riportare alla ribalta un altro fatto, magari meno noto, ma che ha messo in luce una modalità non “politically correct” di affrontare il tema della violenza nella società americana, in particolare quella che interessa la popolazione afroamericana.
Il protagonista si chiama Jonathan Isaac, 25 anni, giocatore professionista di pallacanestro NBA per la squadra degli Orlando Magic, tornato alla ribalta delle cronache sportive per il suo ritorno lo scorso 23 gennaio a calcare il parquet dopo un’assenza di più di due anni dovuta a un gravissimo incidente (rottura del legamento crociato del ginocchio sinistro) occorso in una partita disputata il 2 agosto 2020, in piena pandemia, all’interno della cosiddetta “bolla” di Orlando, nella quale erano stati rinchiusi tutti i giocatori delle squadre NBA per garantire la fine del campionato in un luogo protetto.
Erano i giorni delle grandi proteste di massa contro l’omicidio di George Floyd, inchiodato con la testa a terra brutalmente per otto minuti sotto il ginocchio di un agente, fino al soffocamento definitivo. La morte di Floyd avvenne a Minneapolis il 25 maggio 2020. Nel giro di una settimana violente proteste divamparono in tutti gli States, al punto che 40 città dichiararono il coprifuoco. La NBA, dove la maggioranza dei giocatori è afroamericana, si mobilitò immediatamente. Il 30 luglio 2020 ripartiva il campionato sospeso da marzo per via del coronavirus con tutte le squadre concentrate nella nuova location Covid-free di Orlando in Florida. La protesta si svolse garantendo inizialmente lo svolgimento delle partite, e invitando giocatori e componenti degli staff – sia bianchi che neri – a inginocchiarsi durante l’inno americano indossando magliette con la scritta “Black Lives Matter” o altri slogan contro la violenza e la discriminazione. Tutto ciò con l’avallo esplicito dei vertici NBA.
Il vertice della protesta fu raggiunto il 26 agosto in una partita dei playoffs tra i Milwaukee Bucks e gli Orlando Magic, quando i primi non scesero in campo per protestare contro il ferimento da arma da fuoco di un altro afroamericano, Jacob Blake, nel Wisconsin. Per tre giorni furono sospese tutte le partite, che ripresero con l’accordo tra giocatori e lega che le arene NBA sarebbero state luoghi di votazione per le elezioni presidenziali del successivo 3 novembre.
Questo il contesto che vedeva quotidiane dichiarazioni di sostegno alla protesta da parte delle principali stelle delle squadre NBA, in primis LeBron James, ma anche con il sostegno di tanti giocatori bianchi. Ma torniamo a Jonathan Isaac, anch’egli giocatore di colore, originario del Bronx di New York. Due giorni prima dell’infortunio, il 31 luglio 2020, in occasione della partita degli Orlando Magic contro i Brooklyn Nets, durante il tradizionale canto dell’inno americano, i giocatori delle due squadre diedero vita alla prevista protesta a sostegno del movimento “Black Lives Matter” indossando una maglietta con tale scritta e inginocchiandosi. L’unico a non compiere il gesto rimanendo in piedi a testa bassa, indossando la maglia numero 1 di Orlando fu Jonathan Isaac, allora ventiduenne e alla sua terza stagione NBA, già componente stabile dello starting five della squadra nel ruolo di ala grande. In quella partita Isaac segnò poi 16 punti.
Il gesto controcorrente di Jonathan Isaac sollevò allora alcune polemiche, che però non scossero il giocatore, il quale ha recentemente rimotivato la sua posizione con alcune interviste e con la pubblicazione di un libro lo scorso novembre dal titolo “Why I stand”, cioè “perché sto (in piedi)”, ma anche in senso figurato “perché credo in qualcosa” e anche con un film dal titolo “Standing for Jesus”.
Isaac dichiarò che la motivazione del suo gesto era religiosa: «Ci ho pensato molto e credo che inginocchiarsi e indossare una maglietta non servono a supportare la causa. Per me le vite nere sono sostenute attraverso il Vangelo. Tutte le vite sono sostenute attraverso il Vangelo». Nel riferimento a “tutte le vite” e non solamente alle “black lives” sta il cuore del suo messaggio, anticipando un giudizio che oggi, dopo i recentissimi fatti di Memphis è ancora più chiaro.
Oltre al sopra citato film, interrogando internet troviamo diversi video in cui Isaac viene intervistato e chiamato a spiegare il senso del suo gesto. Riportiamo di seguito (nostra traduzione) uno stralcio di una delle interviste di presentazione del suo libro: «Ciò che io speravo di comunicare era semplicemente la mia idea di ciò che realmente poteva cambiare le cose. Ognuno sapeva che i miei compagni di squadra stavano inginocchiandosi per ciò in cui credevano, ma anche io stavo in piedi per ciò in cui credevo, cioè che, ultimamente, ciò che sta realmente cambiando le cose è l’amore di Gesù Cristo. Ambo le parti erano armate una contro l’altra riguardo ciò che era stato fatto o ciò che si doveva fare, ma se noi potessimo scegliere di amarci l’un l’altro nel modo in cui Dio ci ama nonostante il nostro peccato, nonostante i nostri difetti, la Bibbia dice “In questo consiste l’amore, non nel fatto che noi per primi abbiamo amato Dio, ma che per primo Dio ha amato noi e Cristo è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori”. Questo è il messaggio che volevo trasmettere. Ciò che mi ha fatto decidere fu il sapere che non ero lì ad affermare me stesso. Non affermavo il mio pensiero, sapevo di affermare la parola di Dio. Là non ero da solo. C’era la mi comunità, mia moglie, la mia famiglia, e tutti coloro che la pensavano come me ma non avevano il coraggio di testimoniarlo in quel momento».
In un’altra intervista alla giornalista Megyn Kelly Isaac così dettaglia ancora la sua posizione: «Ciò che è accaduto a George Floyd è stato ovviamente tragico, allo stesso modo di come è tragico ciò che è successo nel nostro mondo e sta accadendo tuttora. Ciò che ho tentato di fare del mio meglio è fare un passo indietro e dirmi “Qual è il modo giusto per rispondere in modo tale da favorire maggiormente il cambiamento?” allo stesso modo in cui coloro che ha deciso di inginocchiarsi o di dissentire da me hanno preso una decisione per sé, per ciò che volevano fare, cioè inginocchiarsi all’Inno nazionale e indossare la maglietta Black Lives Matter. Per me non fu così, in quel momento, guardando alla mia vita e dicendomi che l’amore di Cristo è la cosa che mi ha cambiato e salvato. Non riuscivo a pensare a un migliore o più grande messaggio o rimedio ai problemi che vediamo, al razzismo e tutte le tante cose che in ultima analisi hanno infettato il cuore degli uomini. Non riuscivo a vedere un rimedio migliore. Così decisi di non entrare in un conflitto, di non coinvolgermi in un momento politico, di non entrare nella pazzia di ciò che stava accadendo».
E sempre nella stessa intervista per meglio chiarire in che modo fosse in gioco la propria libertà nel suo gesto di non inginocchiarsi: «Parte del problema stava nel fatto che si trattava di un ordine. Era fatto in modo da sembrare che l’unica via per sostenere le vite dei neri in quel momento fosse fare ciò che ti veniva detto di fare, cioè inginocchiarsi all’inno e indossare la maglietta BLM. E se non lo facevi, allora eri immediatamente una cattiva persona, cui non importava nulla delle vite dei neri (…) La sera prima ho avuto un colloquio con il mio pastore e alla fine dissi: “Ascolta, è più grande del colore della pelle. Si tratta dei cuori degli uomini che hanno bisogno di essere cambiati”. Il razzismo non è l’unica cosa che affligge i cuori degli uomini. Ma io so che il vangelo cambia i cuori degli uomini ».
Jonathan Isaac fa parte anche di quel ristretto numero di giocatori NBA che hanno deciso di non vaccinarsi contro il Covid nonostante la richiesta della Lega NBA, motivando la propria posizione non come posizione ideologica no-vax, ma con il fatto che il vaccinarsi deve essere una libera scelta personale e non un obbligo imposto dall’esterno.
God bless, Jonathan Isaac.
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