Non è l’entità della pena che desta stupore, sono le motivazioni della sentenza che appaiono poco condivisibili.
Franco Cioni, l’anziano che il 14 aprile 2021 ha ucciso, soffocandola, la moglie gravemente malata giustificando il proprio gesto con la volontà di non vederla più soffrire, è stato condannato dalla Corte di Assise di Modena a sei anni e due mesi di reclusione.
Il reato contestato era l’omicidio aggravato, delitto punito con la pena dell’ergastolo, ma la concessione di tre attenuanti ha consentito di arrivare ad una condanna “mite” che verosimilmente consentirà al Cioni di non tornare più in carcere.
Le attenuanti concesse, riferisce il difensore, solo quelle comuni (le cosiddette attenuanti generiche), che vengono applicate a chi tiene un buon comportamento processuale, il risarcimento dei danni (risarcimento versato alla sorella della vittima) e i motivi di particolare valore morale.
È stato possibile contenere la pena grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il divieto di applicare le attenuanti con giudizio di prevalenza sulle aggravanti per i reati da codice rosso (femminicidi).
Il fatto ha origine da un dramma umano di eccezionale gravità: la moglie ammalata di un morbo incurabile che provoca forti dolori ed il marito che, dopo anni di pietosa assistenza, non regge la situazione e decide di sopprimerla. Naturalmente è una condotta vietata, in quanto nel nostro ordinamento non è consentito uccidere una persona anche se afflitta da gravi dolori causati dalla malattia.
È stato giusto contenere la pena: non è un omicidio di mafia o a scopo di rapina, ma l’esito di un dramma umano che non può certo trovare nella sanzione penale un’adeguata soluzione. Ma il principio va salvaguardato: nessuno può arrogarsi il diritto di togliere la vita a un proprio simile. Per nessun motivo.
Ed è proprio per questo che appaiono fuori luogo le parole utilizzate in sentenza dalla Corte di Assise che sembrano avvallare un certo sentire sociale diffuso tra soggetti che hanno vissuto la drammaticità del fine vita di loro congiunti, che li porta “a riconoscere nella condotta osservata dall’imputato la manifestazione di uno stato affettivo di amore pietoso che trova la propria legittimazione interiore nella lunga e assoluta compartecipazione emotiva per le sofferenze della vittima ormai deprivata di ogni condizione di vita relazionale per l’incedere della malattia e l’ormai prossimo esito letale”.
Certo si tratta di una motivazione finalizzata solo a giustificare la concessione di attenuanti, assenti le quali la pena non avrebbe potuto essere contenuta entro limiti accettabili, ma sono anche parole che non devono e non possono attribuire un valore etico a una condotta che invece resta certamente illecita, perché non tiene conto della sacralità della vita e dell’impossibilità per chiunque di attribuirsi arbitrariamente il diritto e la facoltà di decidere della vita altrui. Neppure di persone sofferenti.
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