Matthew Thane, un noto streamer texano di 18 anni, è stato ucciso da un altro giovane che poi si è tolto la vita. All’origine dell’omicidio ci sarebbe una sessione andata male di Call of Duty, una serie di videogiochi “sparatutto in prima persona” presenti su pc e varie altre console.
Il giovane che ha sparato e poi si è suicidato è un 23enne che avrebbe percorso oltre 5mila chilometri per uccidere la propria vittima: avrebbe indotto Matthew a uscire di casa dando fuoco a del propano e poi gli avrebbe sparato a bruciapelo.
La violenza furiosa che ho raccontato sembra folle eppure, vista da vicino, perde i toni dell’assurdità perché assomiglia terribilmente al gioco online che l’ha generata. Chi ha visto solo per due minuti il “gioco sparatutto” che è all’origine della vicenda si rende conto di come questo abbia performato la vita reale dei due giovani morti al punto da far passare l’uccidere, l’investire e lo sparare da virtuali a reali.
Parrebbe che la realtà virtuale in questo caso sia stata così potente da spegnere nei due giovani la consapevolezza dell’assassinare veramente: la pistola reale sparava proiettili reali dentro il corpo di un uomo reale, ma forse la loro percezione non era in grado di distinguere il reale dal virtuale.
Matthew Thane non era un avatar, non era un nick name, era una persona in carne ed ossa. L’idolatria del delirio cui può portare una vita virtuale senza relazioni reali è tale da trasformare un banale alterco per un gioco in un motivo sufficiente per uccidere al punto di farlo con una violenza premeditata accecante.
Voglio però fare un passo in avanti. Il rischio che la realtà virtuale cambi e performi la nostra vita riguarda anche chi, come me e come noi, non corre il rischio di sparare a nessuno. Ci è mai capitato di notare quanto siamo impazienti quando una persona che parla con noi è più lenta del normale, meno diretta ed essenziale allontanandosi così terribilmente dalle risposte esatte in milionesimi di secondi cui ci stanno abituando i nostri smartphone? E perché non siamo capaci di attendere nemmeno un minuto la metro o l’ascensore senza estrarre il telefonino per controllare l’ultima notifica di whatsapp? Riusciamo a guardare un film o una serie su Netflix senza consultare ogni cinque minuti, su Wikipedia, chi sia l’attore che sta recitando o cambiando nervosamente, ogni poco, la storia che stiamo guardando?
Senza arrivare a casi estremi e patologici come quelli dei due americani, credo si debba prendere atto che il mondo virtuale non solo ci attira a sé e ci inghiotte ma tracima nella nostra vita reale e cambia il nostro modo di relazionarci. I due giovani che hanno perso la vita hanno, inconsapevolmente, riprodotto nella vita reale quel gioco che li aveva attirati per giorni interi nel proprio vortice. Prendiamone atto e lottiamo perché il processo si interrompa. Riprendiamoci le nostre vite. Riappropriarsi delle relazioni reali vuol dire tante cose. Per esempio essere disposti ad essere feriti dagli altri, a smussare gli angoli, ad ascoltare e a fare pace.
Il dramma di Matthew Thane e del suo omicida-suicida è che Call of Duty li aveva a tal punto performati da uscire dagli schermi dei pc per diventare reale. Gli studiosi ci aiutino e si rimbocchi le maniche anche lo Stato. Il rischio di fronte al quale ci troviamo è enorme. Nessuno da noi, come singolo, è in grado di resistere agli straordinari mezzi che i giganti dei videogiochi sono in grado di mettere in campo per trangugiare le nostre vite. E restituircele fatte a pezzi.