Hanno usato un drone o un ordigno sganciato da un aereo, che ha forato tre soffitti prima di raggiungere il suo obiettivo. La sostanza è che è stato ucciso Saleh Al Arouri, numero due di Hamas, morto a Beirut per mano israeliana insieme ad altre cinque persone. Un episodio che può cambiare l’andamento della guerra finora combattuta prevalentemente a Gaza, ma destinata, di questo passo, ad allargare i suoi confini e quindi ad aggravarsi.



Con questa iniziativa, dice Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, Israele sembra prendere in considerazione la possibilità di un allargamento del conflitto, utilizzato per regolare i conti con tutti i Paesi dell’area. L’attentato, inoltre, potrebbe finire per radicalizzare ulteriormente Hamas, stroncando qualsiasi tipo di normalizzazione e allontanando la sua entrata nella OLP e quindi nell’ANP. La prospettiva, insomma, è quella del muro contro muro.



L’escalation potrebbe riguardare non solo il Libano, dove il capo di Hezbollah Nasrallah ha annunciato una risposta all’attentato, ma soprattutto la Cisgiordania, di cui Al Arouri era nativo: la reazione palestinese potrebbe inasprire ancora di più il conflitto. Insomma la tensione in Medio Oriente, già alta di suo, ha raggiunto livelli di massima allerta. Mentre Israele starebbe pensando di accordarsi con alcuni Stati africani perché accolgano i palestinesi sfollati da Gaza.

Che ruolo aveva Al Arouri nell’organizzazione di Hamas e perché si era rifugiato a Beirut?

Aveva un ruolo importante essendo un componente del Politburo dal 2010 e numero due dell’organizzazione dopo Ismail Haniyeh dal 2017. Si trovava in Libano perché è l’unico Paese che gli ha dato asilo. È stato in carcere, poi espulso dai territori da parte di Israele. Si è rifugiato in Turchia fino a che Ankara ha ripreso i rapporti con Israele, che ha chiesto la sua estradizione. Al Arouri ha cercato di andare in Qatar ma alla fine è approdato in Libano, come molti altri leader di Hamas, naturalmente godendo della protezione di Hezbollah. La sua importanza risiedeva nel fatto di essere l’anello di congiunzione tra Hamas e le altre fazioni filoiraniane, l’architetto di quella che in arabo chiamano “l’unità dei fronti”. Ha ricevuto diverse minacce: la sua foto più nota, nella quale viene ritratto con un mitra alla sua scrivania è dell’agosto scorso, quando Netanyahu lo ha citato per nome dicendo che era nel mirino di Israele.



C’era una taglia su di lui anche da parte degli americani, giusto?

Sì. Inizialmente era di 5 milioni di dollari, quindi è stata alzata a 10. Lo considerano l’istigatore dei tumulti in Cisgiordania: è originario di una località vicino a Ramallah, dove dopo il 7 ottobre gli israeliani hanno distrutto casa sua arrestando alcuni parenti. Come per tutti i capi di Hamas la morte violenta fa parte dei rischi del mestiere, ma quello che stupisce è il cambio delle regole di ingaggio fra Israele e Hezbollah, presa di mira proprio nella sua roccaforte, la periferia sud di Beirut. Non è come per l’uccisione del generale dei pasdaran iraniani Mousavi in Siria: qui Tel Aviv ha cambiato le regole del gioco. Hanno preso di mira la persona responsabile di tenere i rapporti con Hezbollah. Gli ultimi incontri di Nasrallah con Hamas sono stati proprio con lui e con un rappresentante della Jihad islamica.

Un aspetto che cambia molto la situazione?

Hezbollah è subito uscito con un comunicato in cui si dice che Israele non la passerà liscia. Con questa operazione Israele, con tutte le complicità che può avere avuto sul terreno, dove sicuramente qualcuno ha guidato la missione, ha dimostrato che può condurre un’operazione per far fuori un personaggio di questo calibro senza buttare giù interi palazzi o città sulla testa dei suoi abitanti, cosa che non sta facendo a Gaza. Sono capaci di fare attacchi mirati, con tutte le riserve nei confronti delle azioni che si possono definire così: altre volte quando ha condotto operazioni contro i fondatori di Hamas non gli è importato di uccidere altre venti persone. È successo con capi come Rantissi, Yasin e Shahada.

Con un attacco del genere Israele ha messo già in conto la possibilità di un’escalation: qual è allora la strategia del governo Netanyahu?

Con una mossa del genere avrà soppesato le gravi conseguenze che ne potrebbero derivare. Al Arouri era considerato il capo di Hamas in Cisgiordania, anche se stava in Libano, bisogna vedere quali saranno le reazioni nella West Bank, alla luce anche dello sciopero generale proclamato da Abu Mazen. Israele non si è assunta ufficialmente la responsabilità dell’attentato, ma nel momento in cui Netanyahu dava disposizione ai suoi ministri di non commentare l’accaduto, l’ambasciatore israeliano all’ONU si complimentava con il Mossad e lo Shin Bet per la riuscita dell’operazione. L’ammissione c’è e avranno preventivato le conseguenze.

Di fatto l’uccisione di Al Arouri comporta un innalzamento del livello di guardia che mette in secondo piano qualsiasi tentativo di tregua, pace o anche solo di allentamento della tensione?

Nel momento in cui gli Usa danno un segnale a Teheran ritirando dal Mediterraneo la portaerei Ford, succede un attentato che fa salire di nuovo la tensione.

Le distruzioni a Gaza, i palestinesi che vengono spinti fuori dalla Striscia, quest’ultimo blitz spingono a pensare che Israele voglia sfruttare il 7 ottobre per regolare definitivamente i conti con tutti nella zona. È così?

Questa è la mia impressione. È chiaro, comunque, che non conviene loro aprire tutti i fronti contemporaneamente. Bisogna tenere conto anche delle conseguenze che ci saranno sugli equilibri interni alla scena palestinese: tutte le speculazioni che parlano di un’ala più pragmatica di Hamas, che fa capo ai leader in esilio in Qatar, che vorrebbe arrivare a una soluzione di compromesso potrebbero essere messe a tacere. Si parla di un coinvolgimento di Hamas nell’OLP (di cui ora non fa parte), che elegge l’ANP. Un’adesione che significherebbe accettare, tra le altre cose, il riconoscimento di Israele.

Era in corso un processo di normalizzazione di Hamas?

Sì. Con l’uccisione di Al Arouri voglio vedere se si andrà avanti su questa strada o se ci sarà un’ulteriore radicalizzazione di Hamas, ridando forza alle tesi di chi sostiene che non serve abbassare i toni se poi la reazione di Israele è questa. Sono interrogativi che aspettano una risposta. Israele è tornato a una vecchia politica scegliendo il Libano, un Paese debole; il Qatar aveva messo in guardia Tel Aviv dall’intraprendere un’azione del genere sul suo territorio. Il Libano è un Paese privo di sovranità, l’unica cosa che è riuscito a fare è una protesta all’ONU.

Israele, quindi, sembra volere una radicalizzazione di Hamas?

L’impressione è questa. Non esiste un’altra spiegazione ai fatti. L’interpretazione israeliana presuppone che tutto quello che sta succedendo a Gaza sia teleguidato dall’estero. Non penso che sia esattamente così. I leader fuori dalla Striscia contano, ma dare questa lettura significa tornare a una visione che Israele aveva abbandonato da anni: l’ultimo attentato mirato all’estero risale al 2016 a Tunisi.

Come mai anche Beirut ospita alcuni capi di Hamas?

Non Beirut città quanto la periferia sud, dove Hezbollah ha il suo quartier generale. I capi di Hamas che stanno in Qatar sono abbastanza visibili, vivono in albergo, quelli che sono in Libano conducono una vita discreta, anche perché lì, vista la debolezza dello Stato, possono agire indisturbati tutti i servizi di spionaggio.

Gli Usa sono stati lasciati all’oscuro dell’intenzione di procedere all’uccisione di Al Arouri?

Non all’oscuro ma sono stati avvisati a operazione in corso, quando non potevano più bloccarla.

Questo episodio potrebbe cambiare i rapporti degli israeliani con Washington?

Non è la prima volta che gli americani devono ingoiare un boccone amaro come questo. Non gradiscono, perché alla fine non vengono presi in considerazione, però con Israele devono ingoiare e stare zitti. Lo hanno detto più volte, anche se in maniera soft: non è il modo di comportarsi di un alleato la cui sopravvivenza militare dipende dagli Usa.

Intanto Nasrallah ha annunciato che Hezbollah risponderà all’attentato di Beirut, un elemento di preoccupazione in più. Quale potrebbe essere la reazione?

Nasrallah ha dichiarato che ci sarà una risposta dura: considera l’attentato anche un attacco al proprio prestigio. Israele ha detto che Hezbollah non era il target dell’operazione ma questo non convince nessuno. Finora non c’è stata una intensificazione del conflitto. Valgono le regole d’ingaggio fissate precedentemente: “Voi colpite all’interno del Libano per 5 chilometri, noi colpiremo entro la stessa distanza in Israele”. Bisognerà vedere se la risposta di Hezbollah all’attentato di Beirut andrà oltre alla zona di confine, arrivando all’interno, magari ad Haifa. Certo che con la strage in Iran, i fatti di Beirut, l’ultimatum degli Usa e di altri Paesi agli Houthi perché non attacchino le navi mercantili, ci sono sempre più motivi di preoccupazione: il conflitto si sta infiammando. E Israele, secondo quanto scrive Times of Israel, si starebbe accordando con il Congo e altri Paesi africani per un piano di migrazione volontaria da Gaza.

(Paolo Rossetti)

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