Esasperata dall’incipiente campagna elettorale, la terribile vicenda del pestaggio mortale del trentanovenne Alika Ogorchukwu, mendicante di origine nigeriane aggredito da un italiano a Civitanova Marche, tiene banco nel dibattito mediatico e politico. La dinamica del delitto non è ancora del tutto chiara, ma quel che è certo è che ad un certo punto l’assassino si è lasciato andare ad una rabbia disumana che lo ha portato a colpire Alika prima con una stampella e poi con le mani nude, in un crescendo emotivo orribile ed impressionante.
Ogorchukwu lascia una moglie, che adesso lo piange e chiede giustizia, mentre ci si chiede quanto l’aggressione sia stata alimentata da un pregiudizio razzista che, anche solo surrettiziamente, ha covato nell’artefice del delitto attraverso le decine di messaggi xenofobi di cui il sottosuolo italiano è intriso. È chiaro che il tentativo di buttarla in politica è fin troppo facile, ma il tema – anche se certamente esiste – è secondario rispetto alla nota dominante di tutta la vicenda, ossia la rabbia.
Da dove viene la qualità della rabbia che ha portato al folle gesto? Come è possibile che una persona si porti dentro un tale coacervo di violenza, pronto ad esplodere non appena si individui colui o colei che può pagare il conto per tutti? Si può derubricare anche questo evento con le consuete attenuanti dell’infermità mentale o del disagio psichico, alimentando uno stigma che vede porre il problema del male sempre e solo in campo medico?
Già, perché quello che si legge in questa storia è male allo stato puro, un’azione che non è spiegabile solo con la chimica che determina la psiche, ma che riguarda le scelte della persona, la sua dimensione etica. L’uomo fa il male e lo fa liberamente. Il nostro tempo ha deciso di non ascoltare la rabbia dell’assassino, di non cercare di comprendere da dove essa venga e come si nutra. Il nostro tempo ha deciso di relegare la rabbia al perimetro della medicina, evitando di porsi davanti alla più elementare delle considerazioni: se quello che ha compiuto il trentaduenne marchigiano è male, ed è un male libero, scelto liberamente dall’avventore, allora quel male può succedere anche dentro di te e dentro di me.
Noi ci ostiniamo a non voler guardare la cronaca come uno specchio in cui cogliere l’occasione per portare l’attenzione a ciò che abbiamo dentro, a ciò che ci anima e con cui abbiamo il dovere di fare i conti. Facile buttarla in politica, facile buttarla in medicina. Più difficile lasciarsi sfidare dall’inaudita possibilità che quella di Civitanova Marche non sia soltanto una tragedia isolata, bensì un dramma che attiene al nostro cuore. Chi ascolterà davvero ciò soggiace all’intimo di ognuno di noi? Che cosa potrà veramente smuovere la nostra umanità?
Senza risposte a queste domande ogni commento rischia solo di aggravare quanto avvenuto. Di disonorare la memoria di Alika. E di far emergere la dimensione peggiore che può esprimere un omicidio del genere. Quella del grottesco. Di una società che non si accorge che nella libertà dell’altro ciascuno di noi può ritrovare una domanda per sé.
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