Gli ultimi eventi relativi alla guerra tra Nato-Ucraina e Russia – la pressoché completa disconnessione del Paese dalla rete elettrica per via dei bombardamenti russi, la definizione della Russia da parte del Parlamento Ue come “Stato promotore del terrorismo”, le parole di Zelensky al Consiglio di sicurezza Onu, dove il presidente ucraino ha definito l’operazione russa di lasciare il Paese al freddo “crimine contro l’umanità” – devono indurre a riesaminare con più realismo le aperture emerse nelle ultime settimane.



Il detto “Si vis pacem, para bellum”, considerato guerrafondaio, viene spesso contrapposto a “Si vis pacem, para pacem”, definito pacifista. In realtà, per essere realiste, le due posizioni devono convivere, ma hanno entrambe bisogno di approfondimenti, a partire da cosa si intende per pace.

Se per pace si intende l’assenza di guerra, non si può prescindere dalla prima posizione, perché l’uso della forza militare come deterrente verso eventuali aggressori, se non esclude l’eventualità della guerra, ne può ridurre le probabilità. Il deterrente, soprattutto nucleare, ha funzionato durante la Guerra fredda, almeno tra i due blocchi, Nato e Patto di Varsavia, pur non evitando guerre al di fuori di essi e al loro interno.



Tuttavia, se per pace si intende la possibilità di convivenza tra Stati o popoli diversi, allora non può bastare l’assenza di guerre, tenendo conto che queste non si combattono solo sul fronte militare, ma anche su altri campi, quali quelli economici, commerciali o finanziari, e con conseguenze molto gravi.

È necessario, quindi, mettere in atto anche l’altro principio, ancora una volta evitando di concepire la pace come solo il tentativo di evitare guerre, bensì come la ferma intenzione e la concreta volontà di arrivare alla già citata convivenza pacifica tra diversi nel rispetto reciproco. Come dimostra la storia umana fin dal suo inizio, è una strada lunga e difficile, che porta a rinunce e compromessi in vista di un risultato più positivo, non sempre facile da valutare. Un percorso che richiede, accanto a un pacifismo ideale, un realismo che assume spesso tratti dolorosi, come avviene peraltro nella vita di ogni uomo. Che prevede la coesistenza di entrambi i princìpi visti, in attesa che il compimento del secondo annulli la necessità del primo, obiettivo che dovrebbe essere di ogni governo di popolo, tanto più se si definisce democratico.



Può essere utile ripensare all’attuale guerra in Ucraina sotto questo aspetto. L’Ucraina si sta dimostrando essere solo il campo di battaglia dei due veri contendenti: Washington, o la Nato se si preferisce, e Mosca. Risulta evidente, da parte di entrambi, l’applicazione del “Para bellum”, con la sensazione che al fondo vi fosse una specie di resa dei conti.

Da parte di Washington si può pensare al tentativo di un definitivo indebolimento della Federazione Russa, con magari una sua implosione, a causa del non-successo di una condannabile campagna militare, per di più azzardata. L’attuale conflitto porta con sé grosse difficoltà anche per gli alleati europei, ma può consentire più mani libere nel probabile futuro scontro con l’avversario reale, la Cina.

Per quanto riguarda Mosca, hanno giocato senza dubbio problemi interni dell’attuale leadership e la ricerca di una riaffermazione della grandezza della Santa Russia per rafforzare il suo potere. D’altro canto, per Washington può avere influito il desiderio di ripristinare il “Secolo americano”, attualmente in declino. L’atteggiamento non allineato, per usare un termine della Guerra fredda, di molti Stati anche importanti indica come questo ritorno sia molto difficoltoso.
Ciò che sembra mancare è perciò la volontà di innescare un processo reale di avvicinamento a una pace sostanziale, responsabilità in primis delle democrazie, perché per le dittature o i regimi autocratici prevale il principio dei rapporti di forza. Washington ha tentato questa strada nel caso dell’Ucraina? La risposta è a mio parere negativa.

L’Ucraina, come dice il suo nome, è terra di frontiera, storicamente parte dell’Impero Russo, anzi in buona parte origine della stessa Russia, ma nel corso dei secoli si è andata formando una coscienza nazionale ucraina distinta da quella russa, pur rimanendo legami molto stretti. L’Ucraina, piuttosto che uno Stato cuscinetto, poteva diventare luogo di incontro tra la Russia e il resto dell’Occidente, ruolo facilitato dalla presenza di una forte minoranza che parla russo come lingua natale. Si tratta di più del 15% della popolazione, concentrata nella parte orientale del Paese e che coinvolge più di due terzi degli abitanti nel Donbass e in Crimea.

Washington invece ha appoggiato i governi ucraini in una sorta di “derussificazione”, con alto rischio di conflitti interni, come avvenuto poi nel 2014 con la guerra ai separatisti del Donbass. Di certo Mosca ha soffiato sul fuoco e appoggiato concretamente, anche militarmente, i separatisti, ma la guerra è andata avanti per otto anni, inserendosi poi nell’aggressione russa di quest’anno, senza che Washington intervenisse per una soluzione pacifica. È sorprendente il silenzio in cui sono caduti gli accordi di Minsk 2, siglati nel febbraio 2015 dal cosiddetto “Quartetto di Normandia”, cioè Russia, Ucraina, Francia e Germania, con la supervisione dell’Osce.

Tra i 13 punti del Protocollo, i più rilevanti e decisivi erano: immediato cessate il fuoco, riforma della Costituzione ucraina con il riconoscimento di uno statuto speciale alle regioni di Donetsk e Lugansk, elezioni in queste regioni secondo gli standard dell’Osce. L’attuazione di questi accordi avrebbe offerto la possibilità di porre fine alla guerra nel Donbass e prevenire l’attuale guerra, un primo sperabile passo verso il “Para pacem”.

Nulla di questo è avvenuto ed è probabile che l’attuazione degli accordi sia stata boicottata dai governi sia russo che ucraino, ma a quest’ultimo toccava gran parte del lavoro. Si è invece preferito continuare con la guerra per altri sette anni. È evidente il forte potere che Washington aveva e ha sui governi ucraini, ma questo potere non è stato esercitato per attuare quegli accordi che avrebbero potuto, con tutti i condizionali del caso, evitare una lunga guerra interna e il rischio attuale di una guerra globale.

Perché non si è agito in questo senso? Forse perché il problema non è nel “Para bellum” o “Para pacem”, ma nel “Si vis pacem” e in questo, come in tante altre guerre correnti, nessuno la voleva realmente.

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