La spregiudicata aggressività della Russia di Vladimir Putin sconsiglia distrazioni riflessive di natura storico-politica. E obbliga certamente i leader di un “Occidente” frettolosamente rinato in quanto tale (forse in parte suo malgrado) a una fermezza “senza se e senza ma”, che non include soltanto la minaccia di sanzioni economiche più aspre verso Mosca, ma anche l’attivazione dei dispositivi militari Nato.



Le avvisaglie di una nuova Guerra fredda ripropongono però inevitabilmente un confronto competitivo profondo – sul pianeta – fra modelli socioeconomici e strutture istituzionali, culture ed  etiche politiche, forse tout court fra “ideologie”: ricomprendendo fra queste anche la “democrazia di mercato”. Usa e Ue da un lato, la democratura post-sovietica e la Cina sempre totalitaria dall’altro, tornano a misurarsi per il primato del proprio modello, della visione del mondo che sostiene costruzioni statutali diverse, differenti organizzazioni dell’economia, approcci alle relazioni internazionali ancora conflittuali a 77 anni dalla fine della seconda “guerra mondiale”. In Ucraina – come nel braccio di mare fra Cina e Taiwan – due “metà” di uno stesso mondo si accusano di nuovo a vicenda di essere diverse l’una dall’altra.



È uno scenario che, forse a differenza che passato, coglie “l’Occidente” impreparato: esposto – non solo in termini geopolitici – su terreni insidiosi come lo è plasticamente l’Ucraina e per molti versi anche Taiwan. È un Occidente in parte sorpreso di veder messa in discussione una globalità “occidentale” ritenuta definitivamente acquisita dopo la caduta del Muro, sotto la spinta di finanza e tecnologie digitali, dimensioni apparentemente unificanti, apparenti veicoli vincenti di “libertà occidentale”.

È un “Occidente” che rivendica lo “stato di diritto internazionale” contro il bellicismo russo e proclama “inviolabili” le frontiere ucraine, ma sembra dimenticare che gli accordi diplomatici di Kiev prevedevano la neutralità dell’Ucraina rispetto alla Nato e il riconoscimento delle minoranze russofone. Secondo la stessa logica, già al termine della Prima guerra mondiale il presidente statunitense Wilson promuoveva fra i suoi Quattordici Punti il massimo rispetto di principio per i confini etnici. E su questo terreno non è facile per l’Occidente darsi ragione “a prescindere” e dar torto in via assoluta a Putin o a Xi.



Non è facile neppure affermare in chiave etico-politica la difesa della democrazia “esportata” in Ucraina dalla controversa “rivoluzione arancione” se l’effetto concreto è lo schieramento di apparati militari Nato a diretto contatto con le frontiere russe. Se il risultato è  un nuovo cuneo “occidentale” in una zona geostrategica delicatissima: una “zona d’influenza” moscovita, come fu negoziato fra il presidente Usa Roosevelt e il dittatore russo Stalin. Avvenne nel 1945 a Yalta, nella Crimea oggi già “riannessa” dalla Russia, così come Hong Kong e Macao sono definitivamente uscite da un antico colonialismo europeo e reinglobate nella mainland cinese.

I confini erano forse “inviolabili” dopo il 1989, quando la mappa dell’Europa orientale fu completamente ridisegnata? L’Occidente era favorevolissimo alla caduta di tutte le “cortine di ferro” e alla piena “ri-balcanizzazionne” della regione (in Bosnia e Kosovo la Nato corse militarmente in difesa dei separatisti dalla Serbia, baricentro dei vecchi confini jugoslavi).

Forse la Prima guerra del Golfo fu combattuta per punire un dittatore a suo tempo alleato dell’Occidente contro l’Iran neo-islamico? No: l’obiettivo fu proteggere la monarchia assoluta saudita, custode delle maggiori riserve petrolifere del pianeta. Quello stesso petrolio, peraltro, era già stato usato vent’anni prima come arma geopolitica contro l’Occidente dopo quattro guerre scoppiate a valle della proclamazione dello Stato di Israele. Altra questione (tuttora irrisolta) di confini vecchi e nuovi. Altri postulati di “sicurezza”, altre diatribe su nazioni e territori.

Non è facile per l’Occidente rispolverare l’ “export di democrazia” quando è fallito durante le Primavere arabe nel Nord Africa, e non ha avuto esito migliore quando gli Usa lo hanno condotto militarmente in Afghanistan e Iraq: per rispondere con le armi – non con le proprie certezze morali – agli attacchi dell’11 settembre. In un Paese che trent’anni prima era stato invaso dall’Urss, nell’indifferenza internazionale per tutto ciò che avveniva in una specifica “zona d’influenza”.

Ma è stato export di democrazia quello condotto dalla Nato contro la  Libia di Gheddafi nel 2011? Da allora la Libia non è più uno Stato ed è in guerra civile endemica. Paesi fondatori dell’Unione Europea come Francia e Italia vi si confrontano duramente per il controllo delle risorse energetiche e la loro è solo una delle divisioni “occidentali” in cui la stessa Russia e la democratura turca si inseriscono senza preoccupazioni di morale politica. Nel frattempo la magistratura francese ha acceso i fari sugli interessi personali del presidente francese di allora, Nicolas Sarkozy, a veder eliminate con il regime libico anche le tracce di finanziamenti elettorali sospetti.

Non è facile accusare la Russia dell’uso militare del web o la Cina delle manipolazioni dittatoriali della Rete, quando la metà del partito che regge la Casa Bianca ha ingaggiato una dura battaglia sull’egemonia civile di Big Tech nella democrazia americana dal 1776.

Non è facile polemizzare con il “ricatto del gas” operato da Putin con effetti inflazionistici già devastanti in Occidente nel post-Covid, quando improvvisamente gli Usa bloccano sul caso ucraino il gasdotto Nord Stream 2 frutto di anni e di decine di miliardi di investimenti fra Russia, Germania e Ue. Quale indipendenza è in gioco nella partita del gas russo-(tedesco)?

Questa volta per l’Occidente non è affatto facile. Fu immensamente difficile per Churchill e Roosevelt contenere e poi vincere il totalitarismo nazista all’assalto (e senza disdegnare l’aiuto dell’Urss staliniana). Ma certamente non dubitavano del loro “modello” e non ne dubitavano i Paesi schiacciati dal nazismo. Se alla fine “ebbero ragione” fu anche per questo. Oggi invece l’Occidente (categoria poco inclusiva, certamente sgradita al “politically correct” dominante) è diviso e incerto di se stesso. Per questo può essere storicamente molto pericoloso impostare il confronto con la Russia sull’Ucraina in nome di principi forse ancora “superiori” in assoluto – secondo un celebre detto di Churchill – ma assai meno verificati del previsto da quando l’ideologia leninista fu sconfitta. Almeno così si disse e si dice da allora: che l’Occidente aveva vinto perché non poteva che andare così.

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