Sono passati tre mesi da quando il primo colpo di cannone in Ucraina ha definitivamente svegliato l’Occidente da un “sueño de la razón” durato trent’anni. Laddove il goyano “sueño” ha l’ambiguità di “sonno” e di “sogno”: nel caso dell’Europa il “sonno” coincide con l’assenza di una comprensione della Russia e il “sogno” in una visione tranquillizzante del proprio futuro.
Destati brutalmente dal nostro torpore, ci siamo trovati a balbettare scuse e giustificazioni come riemergendo da un sonno etilico: il che, fateci caso, accadeva anche dopo ogni attentato di matrice islamista con reazioni che andavano dall’auspicare bombardamenti atomici sull’Arabia a imbarazzanti giustificazioni di sanguinari mentecatti.
“Ciò che continua a piacere diventa tradizione”, secondo la pubblicità di un famoso liquore, e si vede che piace un po’ a tutti individuare le ragioni dell’aggressore. Ne è un bell’esempio l’articolo Mario Barbi, pubblicato su questo sito in data 15 maggio. Come si conviene, dopo aver declinato le proprie generalità di “occidentale, cristiano, appassionato della nostra democrazia costituzionale” Barbi pone il seguente postulato: “nella guerra ci sono delle ragioni. E dei torti. Non c’è mai una sola ragione. E un solo torto. E se si vuole porre fine alla guerra è di questo che bisogna parlare” e da questo postulato derivano i punti 30 e 31 del suo trattato, in cui la Russia non è “un energumeno che si scaglia contro uno smilzo e inerme avversario” ma a un toro che cerca di incornare il torero. La conseguenza logica è che “dobbiamo riconoscere le ragioni degli uni e degli altri”.
A pensarci bene Adolf Hitler aveva un mucchio di buone ragioni: l’Austria voleva tornare al Reich e i Sudeti erano tedeschi come lo erano il distretto di Memel e l’anseatica Danzica. Si tratta di ragioni ben più fondate di quelle poste da Putin a sostegno di questa guerra e che sono già state confutate su queste pagine da Adriano dell’Asta.
Va detto che questa storia delle ragioni dell’aggressore inizia davvero a provocare un certo malessere, anche fisico, e va equiparata alla ragazza stuprata perché vestita in modo provocante o alla donna uccisa perché fedifraga o al furto in abitazione laddove il proprietario non si è munito di una buona serratura. Chiamiamo ogni crimine col proprio nome, senza giustificazioni, please.
Quanto al resto dei 43 punti, avvertendo pietà e comprensione per il lettore frettoloso, non mi metterò a contestarli punto per punto, anche se ne varrebbe la pena per dare al lettore almeno un elemento di giudizio diverso tra cui scegliere liberamente.
Innanzitutto bisognerebbe chiedersi se una devastazione come quello di questa guerra sia necessaria per soddisfare le richieste della Russia “fondate e degne di considerazione” su neutralità e bilinguismo. In Ucraina il bilinguismo è prassi corrente: la guerra è stata scatenata dalla Russia nel 2014 perché l’Ucraina voleva aderire all’Unione Europea. Oggi anche gli ucraini di lingua e cultura russa combattono contro Putin e, d’altra parte, nelle elezioni del 2019 il partito filorusso ha preso il 13% dei voti come ricordato dallo stesso Barbi al punto 21. Bisognerebbe riconoscere che gli ucraini non vogliono fare la fine dei bielorussi, dominati da una dittatura spietata, e preferiscono la ricca Unione Europea alla cleptocrazia russa.
– Affermare che le leggi sulla derussificazione siano di per sé “violente” (punto 8) significa equiparare i massacri di Bucha a normative stupide quanto revocabili.
– Imputare al solo nazionalismo ucraino la prosecuzione del conflitto in Donbass (punto 15) è per lo meno miope.
– Accusare l’Ucraina di essersi data un esercito molto efficiente e combattivo (punto 17) è quasi disturbante. Vorrei ricordare a Barbi come Putin derise l’esercito ucraino per la sconfitta da questo subita nel febbraio 2015 a Debaltsevo. Durante una conferenza stampa a Budapest, di fronte a un compiacente Orbán, così definì quella che era l’ennesima violazione degli accordi di Minsk: “È sempre brutto perdere, soprattutto se capita contro quelli che fino ieri facevano i minatori o guidavano trattori (i separatisti del Donbass, ndr), ma questa è la vita e la vita va avanti, inutile fissarsi su questo” (Rivista Italiana Difesa, febbraio 2015). Una battuta che fa parte del suo armamentario dialettico da bullo di quartiere e che oggi, con 20mila ragazzi russi morti in una guerra criminale, deve rimangiarsi con tutto il cappello.
– Interessante notare come in tutti i 43 punti di Barbi non vi sia spazio per notizie sul progressivo aggravarsi della repressione in Russia verso ogni forma di informazione indipendente o di opposizione politica.
Ma i 43 punti di Barbi sono solo l’ultimo esempio di un conflitto culturale dove le ricostruzioni storiche sono la prosecuzione della guerra con altri mezzi in una quanto mai attuale modifica dell’assunto clausewitziano.
Alessandro Orsini è riuscito a sostenere che “la guerra non è scoppiata perché Hitler ha deciso di attaccare l’Inghilterra, la Francia, la Polonia e la Russia (sic!). Quello che è successo è che i paesi europei hanno creato delle alleanze militari ognuna delle quali conteneva un art. 5 della Nato”. A sostegno della propria tesi l’ineffabile docente cita lo storico Basil Liddell Hart: “L’ultima cosa che Hitler voleva era un’altra grande guerra. Il suo popolo e specialmente i suoi generali erano atterriti dall’idea di correre un simile rischio: le esperienze della Prima guerra mondiale avevano lasciato nell’animo dei tedeschi profonde cicatrici” (Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori 1996, p. 6). Nell’articolo sul Tempo del 14 maggio Orsini soggiunge ironico: “Con tutti gli amici che mi sono fatto in questi ultimi tre mesi, non pensate che decine di storici mi sarebbero saltati addosso se avessi detto una falsità? A oggi nessun professore di storia è intervenuto a smentirmi”.
Quello che Orsini omette è il seguito del ragionamento di Liddell Hart. “Mettere in luce questi fatti basilari non significa passare un colpo di spugna sull’intrinseca aggressività di Hitler né su quella di molti tedeschi che furono lieti di lasciarsi guidare da lui. Ma, nonostante la sua totale mancanza di scrupoli, è indubbio che per lungo tempo Hitler perseguì i suoi obiettivi con grande cautela”. Ma qual è il vero pensiero di un grande storico come Liddell Hart? A p. 7 del libro citato lo storico ricorda come i generali fossero contrari alla guerra. “Per Hitler – continua Liddell Hart – [la conferenza di Monaco] significò un ulteriore e più decisivo trionfo non soltanto sugli avversari stranieri ma sui suoi stessi generali” (p. 7). E, sempre secondo Liddell Hart, molta responsabilità del conflitto mondiale va addossata a Francia e Inghilterra che decisero di “adottare una politica di rigida intransigenza (…). Fin da quando Hitler era salito al potere i governi inglese e francese avevano concesso a questo pericoloso autocrate molto più di quanto non fossero mai stati disposti a concedere ai precedenti governi democratici della Germania” (op. cit., p. 9). Liddell Hart cita inoltre l’Hossbach Memorandum in cui Hitler progettava di guadagnare spazio vitale a est per mezzo di una guerra (p. 9 e 10). Lo storico britannico imputa enormi responsabilità al governo Chamberlain e al ministro degli Esteri lord Halifax che diede l’impressione a Hitler di poter agire come meglio credeva. In altre parole Liddell Hart condanna la politica degli “appeasers” che è esattamente l’opposto di quanto sostiene Orsini. Oltre al fatto, non citato da Orsini, che Hitler ha attaccato la Russia nel giugno del 1941 e dichiarato guerra agli Stati Uniti nel dicembre dello stesso anno, facendo diventare mondiale un conflitto europeo; ancora una volta l’opposto di quanto sostenuto da Orsini.
Ma è un po’ troppo pensare che l’ascoltatore medio italiano ricordi queste date. In effetti con queste ricostruzioni storiche televisive siamo vicini alla circonvenzione di incapace, dove l’incapace è l’italiano medio. Dobbiamo rassegnarci perché in televisione la storia si fa così: basta dire un pezzo e tralasciare tutto il resto con la scusa di essere sintetici, come il leggendario Procuste.
Per concludere, perché illustri studiosi e commentatori diano una narrazione così frammentaria è un mistero doloroso. L’effetto è quello di generare confusione e alla fine stanchezza, così che anche di questa guerra ricorderemo ben poco. La testa degli italiani è anch’essa un campo di battaglia di una guerra asimmetrica: ma, come diceva Giovanni Paolo II, “La verità è la forza della pace, perché essa rivela e compie l’unità dell’uomo con Dio, con sé stesso, con gli altri. La verità, che rafforza la pace e che costruisce la pace, include costitutivamente il perdono e la riconciliazione”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI