Più volte su queste pagine abbiamo sottolineato la politica volutamente ambivalente – diremmo a geometria variabile – della Turchia di Erdogan. Questa postura la si può chiaramente evincere anche nel suo rapporto con la Russia oltre che con la Nato.

In primo luogo non dobbiamo dimenticare che se la Russia dovesse prendere possesso dell’intera costa ucraina, ciò le consentirebbe di consolidare la sua egemonia sul Mar Nero, cosa che non può certamente essere accolta con favore da una potenza regionale qual è quella turca. L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina non ha fatto altro che confermare la centralità geopolitica del Mar Nero che in teoria potrebbe essere un possibile campo di conflitto tra russi e turchi come nel passato. Basti pensare al ruolo svolto dalla penisola della Crimea, la culla della cultura turca tartara.



È evidente che la Turchia interpreta la postura russa come pericolosamente espansionistica, cioè come una minaccia alla sicurezza geopolitica ed energetica del suo paese. Stiamo naturalmente alludendo alla conquista dell’Abkhazia nel 2008, all’annessione della Crimea nel 2014 e alla conquista del porto di Mariupol nel 2022.



In secondo luogo questa postura espansionistica da parte russa viene a maggior ragione vista con sospetto proprio per la presenza di un rilevante giacimento di gas naturale nel Mar Nero, giacimento questo che consentirebbe alla Turchia di ridurre la sua dipendenza proprio dalla Russia. Infatti, a metà aprile, proprio durante la guerra russo-ucraina, la Turchia ha inviato tre navi di perforazione scortate in questo giacimento di gas che si trova a 185 chilometri a nord del porto di Zonguldak. Per dieci giorni si sono svolte nel Mediterraneo, nel Mar Egeo e nel Mar Nero le manovre navali che hanno coinvolto 122 navi di superficie, 41 aerei e 12mila uomini. Battezzata “Blue Homeland”, secondo una dottrina militare sviluppata da ammiragli turchi contrari alla Nato, l’esercitazione avrebbe dovuto dimostrare la capacità della Turchia di mettere al sicuro le sue risorse e le sue vie di passaggio.



In terzo luogo esiste un altro aspetto che va sottolineato, un aspetto di natura strettamente giuridica.

Con la Convenzione di Montreux del 1936, i turchi hanno il controllo sullo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, tra il Mediterraneo e il Mar Nero. Lo hanno ricordato il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’inizio dell’assalto russo, vietando il passaggio di “tutte le navi da guerra”, ad eccezione di quelle la cui base si trova nel Mar Nero. Tutto ciò ha colto alla sprovvista la Russia e infatti 15 navi che provenivano dal Baltico, dall’Estremo oriente, dalla Siria che erano intenzionate a raggiungere il teatro dell’operazione si sono trovate tagliate fuori. Certo, dobbiamo riconoscere che il blocco dello stretto non ha alterato in modo rilevante il corso della guerra, tuttavia ha impedito un assalto navale decisivo a Odessa che come sappiamo è il principale porto dell’Ucraina meridionale.

Quando l’incrociatore russo Moskva, l’ammiraglia della flotta del Mar Nero, e stato affondato dai missili ucraini a metà aprile, non ha potuto essere sostituito. Gli altri due incrociatori a disposizione della Russia, vale a dire la Ustinov, assegnato alla flotta del Mare del Nord, e il Varyag, della flotta del Pacifico, sono rimasti immobilizzati nel Mediterraneo. Se fossero potuti passare, Odessa sarebbe stata ridotta in cenere.

In quarto luogo esiste un altro aspetto che va sottolineato: dal momento che la Turchia teme che il Mar Nero possa diventare un lago russo ha posto in essere una sinergia in campo militare con l’Ucraina nel settore della produzione dei droni. A questo scopo è stata creata una joint venture tra la società turca Baykar, che produce droni, e l’ufficio di progettazione ucraino Ivchenko-Progress, specialista in motori aeronautici. L’Ucraina, che ha ereditato parte del complesso militare-industriale sovietico, è infatti dotata di una grande esperienza nella fabbricazione di motori per aerei, missili e razzi, che è quasi tutto ciò che manca in Turchia.

Un vantaggio non indifferente, poiché i motori ucraini dovrebbero poter consentire alla Turchia di esportare i prodotti della sua industria della difesa senza doversi preoccupare di ottenere le licenze di esportazione di cui è privata. A causa delle sanzioni, l’Agenzia turca per gli armamenti (Ssb) non ha più accesso alle licenze di esportazione per l’equipaggiamento militare americano. Ad esempio, l’elicottero da combattimento T129 Atak, prodotto dalla Turchia, doveva essere dotato di un motore prodotto da Rolls Royce e Honeywell, cosa che non è più possibile. Il costruttore turco ha dovuto cercare un motore sostitutivo e rinunciare ai lucrosi contratti di esportazione firmati con Filippine (6 elicotteri), Azerbaijan (30) e Pakistan (30). Lo stesso vale per il cacciabombardiere turco TF-X di ultima generazione, che attendeva l’entrata in servizio di un motore prodotto dalla General Electric.

Anche se tutto ciò è stato bloccato dall’attuale guerra, tuttavia la Turchia è riuscita a fornire al suo alleato ucraino 36 droni prima dello scoppio della guerra e circa una dozzina dopo. Senza dimenticare che i soldati ucraini sono stati addestrati al loro uso sul suolo turco, anche prima delle ostilità.

La loro efficacia è stata indubbia soprattutto contro convogli russi, contro le batterie antiaeree e contro gli elicotteri. Non dimentichiamoci che le immagini di colonne di carri armati russi carbonizzati dai droni hanno fatto il giro del mondo. È scontato che la fornitura di queste armi sofisticate abbia irritato la Russia e non a caso i diplomatici turchi ricevono regolarmente lamentele scritte e orali dalle loro controparti russe. Proprio di fronte a questo malcontento il governo turco sta cercando di secretare le informazioni. All’Associazione degli esportatori turchi è stato perentoriamente ordinato di non pubblicare più i dati relativi alle esportazioni nel settore militare relativo all’Ucraina.

Insomma non vi è alcun dubbio che la sinergia turco-ucraina, soprattutto nel settore della difesa, mette a dura prova il rapporto già di per sé ambiguo tra Putin ed Erdogan, che pur essendo apparentemente legati dal loro atteggiamento visceralmente antioccidentale, sono però divisi dai loro rispettivi antagonismi geopolitici in Siria, Libia, nel Caucaso. Ma nonostante tutto ciò sono riusciti a mantenere un equilibrio naturalmente precario.

La lo loro cooperazione rimane salda nonostante lo schianto di un bombardiere russo abbattuto dai turchi al confine siriano nel novembre 2015, nonostante l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara da parte di un poliziotto fanatico nel dicembre 2016, nonostante il bombardamento russo su 37 soldati turchi nel nord della Siria nel febbraio 2017.

Certo l’attuale guerra con l’Ucraina indebolisce questa sinergia: non dimentichiamoci che la Turchia non ha mai riconosciuto l’annessione della Crimea nel 2014 e non dimentichiamoci che sostiene in maniera esplicita il governo di Kiev. Ma proprio in omaggio a questa sua ambiguità la Turchia non perde mai occasione per fare promesse di lealtà alla Russia: l’industria della difesa turca ha lasciato intendere di essere in attesa della consegna di un secondo lotto di S-400, mentre il ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha avvertito le navi della Nato di non entrare nel Mar Nero. Un modo per ricordare che la chiusura dello stretto vale per tutti, compresi gli alleati. Tuttavia le autorità turche consentono alle navi mercantili noleggiate dal ministero della Difesa russo di effettuare la loro navigazione tra la base navale di Tartous in Siria e i porti militari di Sebastopoli e Novorossijsk sul Mar Nero, senza procedere verificandone il contenuto. Descritta come la “superstrada siriana” dai diplomatici ucraini, questi viaggi hanno consentito a Mosca di trasportare di nascosto equipaggiamento militare dalla Siria all’Ucraina e grano, rubato ai produttori ucraini e trasportato in Libano e poi in Siria.

Ma la stessa ambiguità, la stessa ambivalenza la Turchia l’ha sempre dimostrata anche nei confronti dell’Alleanza atlantica.

Nel maggio 2021, ad esempio, la Turchia ha insistito per annacquare la dichiarazione ufficiale congiunta redatta in risposta al dirottamento da parte della Bielorussia di un aereo di linea da Atene a Vilnius con a bordo un giovane dissidente ostile al regime di Lukashenko. Nel 2009 minacciò di bloccare la candidatura di Anders Fogh Rasmussen alla guida dell’organizzazione a causa della sua posizione, ritenuta troppo conciliante, sulle vignette del profeta Maometto, pubblicate in Danimarca nel 2005.

Certo non dobbiamo trascurare l’importanza e la rilevanza che questa postura ha nei confronti del consolidamento della politica interna, non dobbiamo cioè trascurare l’importanza che il presidente turco assegna alla sua visibilità e credibilità a livello internazionale. Il rifiuto delle candidature di Svezia e Finlandia, castigate per il loro presunto compiacimento nei confronti del “terrorismo” curdo, non può che essere politicamente redditizio sulla scena interna. Ma anche la retorica anti-occidentale del leader è diventata la norma. È ampiamente trasmessa dai media filogovernativi e dai partiti amici del governo. Ma come dimenticare che i suoi principi giuridici e morali nulla hanno a che vedere con quelli sbandierati dell’Alleanza atlantica? Come non sottolineare che la sua gestione del potere è simile a quella dei suoi omologhi cinesi e russi? Giustizia agli ordini del potere politico, società civile imbavagliata, irreggimentazione dell’opinione pubblica, creazione di una classe di oligarchi al servizio della causa.

In Turchia sono imprigionati oppositori filo-curdi e rappresentanti della società civile, i media sono tenuti al guinzaglio, le istituzioni, la Banca centrale in primis, sono state poste sotto il controllo del numero uno. Il suo forte sistema presidenziale gli permette di interferire ovunque.

Sullo scenario esterno, nonostante la sua dichiarata volontà di riprendere i rapporti con i suoi vicini regionali – Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Armenia – la Turchia continua a contrastare gli interessi del campo occidentale, violando regolarmente lo spazio aereo greco, cercando di imporre una soluzione a due Stati a Cipro.

Negli ultimi anni il comportamento ondivago di Ankara è stato ignorato in nome dell’unità dell’Alleanza. Potenza regionale essenziale, la Turchia è considerata un fulcro essenziale per contenere la Russia, in particolare nel Mar Nero. Tanto più che la base militare di Incirlik, non lontano da Adana nel sud del Paese, dove sono dispiegate le testate nucleari, o la stazione radar di Kurecik, nell’Anatolia orientale, sono collegamenti essenziali dell’apparato di sicurezza occidentale della regione.

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