L’attacco missilistico russo di ieri contro un edificio di Poltava (47 morti, 206 feriti secondo fonti ucraine) e l’annuncio di un imminente rimpasto di governo sono episodi troppo ravvicinati per consentire un minimo di chiarezza sulle rispettive vicende. Già in precedenza altre dimissioni di esponenti dell’esecutivo sono rimaste avvolte nell’opacità del conflitto e della politica interna ucraina, trovando la loro spiegazione in inchieste di corruzione o nelle decisioni del presidente Zelensky. Sono tuttavia eventi che non alterano il contesto nel quale si collocano i più recenti sviluppi del conflitto, ed è pertanto a tale contesto che occorre rifarsi per capire.



L’attacco sferrato dall’Ucraina a Kursk ha un enorme valore simbolico. Proprio a Kursk il 5 luglio 1943 le truppe tedesche lanciarono una poderosa offensiva contro l’esercito dell’Armata rossa reduce della vittoria di Stalingrado. Secondo gli storici militari, avvenne la più grande battaglia tra carri armati della storia. Quasi 800mila tedeschi, con più di 2mila mezzi corazzati coperti da 2mila aerei, si scontrarono con circa 2 milioni di soldati russi, 4.800 carri e 2.800 aerei. La vittoria arrise a Mosca e a Hitler non rimase che ritirarsi.



Putin ha facile gioco a continuare la sua propaganda che vuole vedere la guerra a Kiev come la prosecuzione della lotta al nazifascismo paragonando Zelensky a Bandera, alleato delle SS. Ma al di là delle retoriche, è necessario vedere da vicino cosa stia succedendo.

Il primo fatto. L’offensiva ucraina è ferma, non ha conquistato nessun centro vitale, né assorbito forze ingenti russe richiamate dal fronte meridionale. Ma nessun osservatore dotato di senno poteva credere che una tale iniziativa fosse l’inizio di una controffensiva in grande stile. Basta guardare una carta geografica, conoscere un po’ (da liceali) la storia della Russia per capire che questo non poteva accadere e quindi lo sfondamento del fronte russo non era l’obiettivo. Come forse un anno fa lo scopo della controffensiva estiva non era di ricacciare i russi indietro. Nel frattempo, invece, i russi continuano ad avanzare sul fronte del Donbass.



Dunque i veri obiettivi di Zelensky erano e sono da ritenere solo politici. Alzare la posta in gioco, cioè invischiare sempre di più gli amici occidentali, e spingere Putin ad una risposta irrazionale che costringa gli Stati Uniti e la Nato ad un impegno diretto.

In questa guerra, infatti, si stanno combattendo due guerre diverse allo stesso tempo. Da una parte vi è la guerra russo-ucraina, dall’altra la guerra tra Russia e Stati Uniti. Cioè la guerra tra Kiev e Mosca è un elemento del conflitto tra Mosca e Washington. Zelensky e gli ucraini con la loro resistenza insperata hanno regalato agli Stati Uniti una nuova opportunità, dopo quelle dell’interruzione del North Stream, del riallineamento della Germania, dell’entrata di Finlandia e Svezia nella Nato, cioè la rivitalizzazione del quasi cadavere dell’Alleanza atlantica.

E gli obiettivi dei tre attori non coincidono, anche se la retorica che copre la realtà è manichea e univoca, cioè nasconde questo duplice aspetto della guerra. Zelensky vuole liberare il Paese, far entrare l’Ucraina nella Nato per essere sicuro del futuro, ma sa che la riconquista della Crimea e dell’Est ucraino sono impossibili con le forze della sola Ucraina. Mosca vuole tenersi la Crimea e il Donbass e non vuole la Nato alle proprie frontiere, ma non ha la forza né le risorse per conquistare e governare il vicino. Washington sa bene che gli obiettivi di Kiev sono impossibili, pertanto vuole indebolire Mosca, favorire magari un cambio di regime, ma non vuole il collasso di una potenza nucleare.

La propaganda ovviamente racconta un’altra storia. Per Putin, Zelensky assomiglia se non a Hitler a Mussolini, Washington incarna il materialismo capitalistico nella sua declinazione woke, mentre per Kiev Mosca è sempre il nemico storico, l’invadente vicino. Per Washington e per i paesi Nato, la narrazione è sempre la solita dall’11 settembre, quella dello scontro di civiltà, democrazie contro autocrazia, paragone tanto più lecito in quanto la Russia attuale è il diretto erede dell’Unione Sovietica. Con un aggiornamento, stante lo status di superpotenza nipotina dell’URSS, anche se di molto acciaccata, ecco riapparire il confronto con Chamberlain e l’appeasement. La logica è la seguente: Kiev deve resistere ad oltranza; gli Stati occidentali devono continuare a sostenere l’Ucraina ad ogni costo, perché Mosca, se vince, si mangia tutta l’Ucraina e poi non si ferma. Continua con la Moldova, gli Stati baltici e così via. La storia insegna, Hitler non si fermò ai Sudeti e a Praga. È la retorica necessaria a giustificare la continua richiesta di armi occidentali sempre più sofisticate, come se la tecnica cancellasse la realtà. Esemplare il caso degli F16 (e dell’abbattimento di un velivolo). Come si può credere che una mezza dozzina di aerei possa cambiare i rapporti di forza? E qui si ritorna alla risposta alla domanda iniziale. Lo scopo degli aiuti non è militare.

Gioco pericoloso, l’escalation sta continuando tra partecipanti che sono potenze nucleari. Un gioco al limite, perché le regole stanno saltando e a forza di alzare la posta qualche attore potrebbe non capire bene le intenzioni dell’altro.

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