Caro direttore,
fin dai primi giorni della guerra russo-ucraina Israele e la Santa Sede si sono segnalati per un attivismo diplomatico intenso e parallelo a favore di una rapido cessate il fuoco. Al blitz del premier Naftali Bennett al Cremlino ha fatto riscontro il video incontro sollecitato da Papa Francesco al patriarca ortodosso di Mosca Kirill e l’inedita visita all’ambasciatore russo presso il Vaticano.
Due mesi dopo, il Pontefice rimane sotto il tiro politico-mediatico di chi gli rimprovera di non aver mai preso posizione “ad nomen” contro Vladimir Putin e di aver finora resistito agli inviti a volare a Kiev. Ma ciò che più disturba cancellerie e schieramenti politici interni e internazionali è evidentemente la martellante polemica del Pontefice contro l’escalation militare in Ucraina, decisa peraltro dal secondo presidente cattolico della storia americana.
A Gerusalemme, d’altra parte, il premier ha affidato la condanna per i “crimini di guerra russi” al ministro degli Esteri Yair Lapid. E questo dopo che il governo israeliano si è astenuto sulla prima risoluzione Onu contro l’invasione dell’Ucraina. Negli ultimissimi giorni perché Israele fosse presente al grande “consiglio di guerra allargato”, convocato dagli Usa al quartier generale Nato di Ramstein, si è dovuto scomodare personalmente il presidente Usa Joe Biden, impegnandosi a un prossimo viaggio a Gerusalemme (mentre formalmente sono ancora validi i discussi “accordi di Abramo” annunciati alla Casa Bianca da Donald Trump e Bibi Netanyahu).
Se la capitale israeliana resta la sede più citata per un possibile incontro risolutivo fra Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, non si stanca di offrire da Roma ogni mediazione utile a interrompere il conflitto subito (e il Papa, in un’intervista a un quotidiano argentino, ha affermato di fidarsi dei consigli dei suoi diplomatici).
Nel frattempo la peculiarità che accomuna Vaticano e Israele – due Stati modellati su due delle grandi comunità religiose bibliche del pianeta – sembra mettere sotto pressione più la “terzietà” dello Stato ebraico sul fronte russo-ucraino piuttosto che la sede del capo della Chiesa cattolica. Se n’è avuta singolare conferma, “per li rami”, perfino sulla stampa italiana.
Ieri il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha firmato un non usuale reportage da Tel Aviv. Pur tralasciando di rammentare che il governo Bennett è entrato in pre-crisi (solo ufficialmente per ragioni estranee allo showdown ucraino), Molinari ha messo a fuoco per esteso la difficile ricerca quotidiana di equilibri interni ed esterni imposta a Israele dalla mossa di Putin.
La Knesset è stata in effetti l’unico Parlamento a quasi-fischiare Zelensky (israelita) per una forzante equiparazione dell’invasione russa alla Shoah (che pure ha avuto in Ucraina uno dei suoi tragici teatri). Israele – come non manca di annotare Molinari – ha aperto le porte ai ricchissimi oligarchi di origine ebraica in fuga dalla Russia (o dalle sanzioni decise a Londra e Washington). Ma ha inizialmente esitato ad accogliere i profughi ucraini non ebrei: ciò anche per la tacite resistenze della forte comunità di immigrati russi, identitari nella lingua e ortodossi sul piano religioso.
Israele non ha denunciato l’accordo militare di fatto con le forze armate russe in Siria, prezioso a tenere sotto controllo l’Iran (invece la Turchia – paese Nato, finora mediatore ufficiale fra Russia e Ucraina – ha finito per chiudere i suoi spazi aerei ai voli militari russi verso Damasco).
La vera escalation che sta scuotendo Israele è tuttavia quella del terrorismo interno di matrice islamica che ha ricominciato a fare morti e feriti in città e villaggi in perfetta coincidenza con l’aggravarsi della crisi ucraina: cioè con la resistenza di un Paese che vuol difendere “patriotticamente” i suoi territori da un’aggressione esterna. E questo “teorema occidentale” è stato subito inevitabilmente imbracciato da tutti coloro che giudicano illegale la presenza israeliana nei Territori palestinesi (e infatti Putin, pochi giorni fa, non ha mancato di telefonare al presidente dell’Autorità di Ramallah, Abu Mazen).
Pur su questo sfondo – o forse proprio su questo sfondo – il direttore di Repubblica ha voluto personalmente garantire ai suoi lettori che “l’anima di Israele sulle rive del Dnepr” non è lacerata: che resta anzi più grande di ogni congiuntura geopolitica (benché Molinari segnali indizi importanti di come – dietro la “neutralità formale” – il “cuore del paese batta per l’Ucraina”). Ma proprio ieri un’altra importante firma israelita in Italia – Gad Lerner su Il Fatto Quotidiano – si è mostrata assai più pensosa.
A Lerner è bastata mezza colonna di corsivo per bocciare il summit “occidentale” di Ramstein. Secondo l’ex direttore del Tg1 (ed ex firma della stessa Repubblica) la Nato a 43 ha mandato in scena un patchwork difficilmente elevabile ad alleanza epocale fra “democrazie liberali”: al cui tavolo – a fianco degli esponenti euramericani e della democrazia israeliana – si sono seduti anche i ministri di Qatar, Turchia e Marocco.
Soprattutto, ha attaccato Lerner con toni corrosivi, il “fantasma dell’Occidente” non può “pretendere che il proprio denominatore comune sia “sistema capitalistico di libero mercato”: perché allora “lasciar fuori la Russia di Putin e gli altri autocrati post-comunisti con cui gli occidentali per trent’anni hanno intrecciato relazioni d’affari”? “Più temerario ancora – scrive Lerner – sarebbe sostenere che la nuova coalizione di guerra sia portatrice del modello culturale europeo o anglosassone”. Nel controcanto di Lerner, la realpolitik di Gerusalemme sembra dunque l’esito degenerativo del lungo regno di Bibi Netanyhau: il premier-campione della destra religiosa nazionalista e bellicista; grande amico (ricambiato) di Trump; battitore libero globale a tutto campo fra Russia, Cina e mondo arabo; spregiudicato gestore delle tecnologie sensibili continuamente sfornate dalla “Tel Aviv Valley”.
Certamente il mondo cattolico – pur attraversato da forti scosse interne, anche in Italia – non sta mostrando le stesse fatiche nel far propri gli indirizzi pastorali del Papa sull’Ucraina. Il Pontefice cerca una “pacem in terris” senza se e senza ma: lontano dalla “follia delle spese militari” e anche da ogni faziosa ideologia pacifista (è sufficiente leggere le interviste rilasciate nelle ultime settimane del cardinale Matteo Zuppi, fra l’altro esponente della Comunità di Sant’Egidio, “la piccola Onu sulle rive del Tevere”).
Qualche problema – in Italia – potrà semmai affliggere il Pd, che ha oggi alla sua guida l’ex leader dei Movimento giovanile dei cristiano-democratici europei. Fra dieci mesi in Italia si terranno le elezioni politiche: il Pd – che fra le sue auto-legittimazioni ricomprende la rappresentanza “autentica” del voto cattolico – sosterrà la “guerra fino alla vittoria” in Ucraina? Come il premier conservatore “brexiter” Boris Johnson, che ha ventilato la legittimità dell’uso delle armi inviate dalla Nato in Ucraina per colpire direttamente la Russia?
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