La Rai ha deciso, giustamente, di far rientrare una propria giornalista e il suo operatore, che, seguendo le operazioni militari molto speciali dell’Ucraina, erano sconfinati in territorio russo. In effetti hanno attraversato il confine tra l’Ucraina di Zelensky e la Russia di Putin senza presentare i loro passaporti a improbabili doganieri. Come del resto hanno fatto, è lecito pensare, anche i soldati ucraini. Così i due italiani, pare, sono stati accusati di essere una specie di immigrati clandestini.
Credo che neppure i giornalisti russi al seguito del loro esercito, all’inizio dell’“operazione militare speciale”, abbiano avuto la possibilità di mostrare i loro passaporti alle guardie di frontiera ucraine. Tutte le persone di buon senso capiscono che la situazione descritta è del tutto particolare. I giornalisti di qualunque Paese al seguito degli eserciti, oltre a rischiare la vita durante la loro missione, inevitabilmente si trovano ad operare anche in condizioni legali del tutto particolari. Più speciali delle stesse operazioni militari.
I giornalisti fanno il loro lavoro. Devono documentare per le loro testate quello che succede, almeno quello che riescono a documentare quando è loro permesso di farlo. C’è poi spesso un’ulteriore censura da parte delle loro redazioni, che in molti casi scelgono di dare al pubblico quelle informazioni che possono essere gradite agli editori e utili a sostenere certe tesi.
Urge stabilire a livello internazionale una convenzione o, meglio, precisare quella che già esiste, in modo da stabilire fino in fondo lo status di osservatori dei giornalisti, che in molti casi suppliscono di fatto il servizio che dovrebbero fare gli osservatori dell’Onu.
Quanto detto mi fa venire in mente un’altra questione collegata al lavoro dei giornalisti. Ci sono conflitti ampiamente documentati, per quanto è possibile. Poi ce ne sono altri, soprattutto in Africa, di cui raramente si sente parlare. E spesso senza un’adeguata documentazione.
Qualche volta ho l’impressione che si ritenga che di certa violenza è meglio che non si parli, o lo si faccia il meno possibile. La tragedia pressoché quotidiana di molti cristiani, ad esempio, di solito non merita più di qualche fugace informazione. E la stessa cosa accade per certe etnie che rischiano di scomparire senza che nemmeno le associazioni animaliste intervengano come per i poveri orsi del Trentino o i cinghiali della capitale.
E sì che ci sono tanti, e non solo missionari, che avrebbero molto da raccontare. Certo occorrerebbero trasmissioni speciali, investimenti speciali, ma così ci sarebbero meno morti dimenticati, attualmente più dimenticati di quelli scomparsi nel Mediterraneo.
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