Mentre la guerra contro l’Ucraina ha già passato i cento giorni, gli esiti sul campo rimangono avvolti in quella nuvola di incertezza che va sotto il nome tecnico di “nebbia della guerra”. Coltre che copre ogni dato, ogni battaglia, facendo sparire la verità dei fatti.
A chi non dispone di informazioni dirette dal campo, non rimane altro che provare a fare alcune considerazioni di buon senso, magari a partire dalla divisione nel fronte occidentale tra falchi e colombe, tra chi vorrebbe una intensificazione degli sforzi bellici della Nato contro la Russia e chi invece si preoccupa di non umiliare Mosca. Discussione difficile, perché viziata da giudizi morali, dove sembra che il campo dei prudenti sia anche il partito dei vigliacchi filoputiniani, mentre le schiere degli oltranzisti si dipinge come il bene formato dai nuovi seguaci di Churchill pronti a impugnar le armi contro il nuovo Hitler.
Se le cose stessero così, se l’Ucraina fosse l’equivalente di Danzica, se si pensasse che dopo la Crimea, il Donbass, vi fosse l’intera Ucraina, i Paesi baltici e così via, l’Occidente aveva il dovere immediato di entrare in guerra contro la Russia. Ma allora completamente errata sarebbe stata la dichiarazione di Biden all’inizio dell’aggressione russa che la Nato non sarebbe intervenuta nel conflitto in nessun modo, ammissione letta da Mosca come la luce verde all’attacco. Altro che deterrenza!
C’è qualcosa che non quadra: da una parte si scoprono le carte, si rassicura Mosca che non ci sarà nessuna escalation; dall’altra, ci sono le molteplici dichiarazioni americane ed inglesi, ufficiali e ufficiose, che la guerra deve continuare fino al logoramento delle forze russe. E che quindi sono necessarie sia maggiori e dure sanzioni economiche, sia un rifornimento continuo di armi sempre più letali all’Ucraina.
Ma i vari Gérard Araud, già ambasciatore francese a Washington, secondo cui se Mosca tocca Odessa la Nato deve rispondere, la commentatrice Anne Applebaum, che afferma che bisogna sostenere l’Ucraina fino alla vittoria, l’ex consigliere del dipartimento di Stato Eliot Cohen che sostiene che la guerra attuale deve condurre ad un nuovo equilibrio di forze in Europa e a un cambiamento profondo a Mosca, l’esperto di diritto internazionale Charli Carpenter che vorrebbe un intervento Nato per motivi umanitari in nome della protezione dei civili, tutti loro forse dovrebbero ricordare una lezione strategica fondamentale.
Se una guerra nasce con le caratteristiche di un conflitto limitato per numero di attori coinvolti e per le armi usate, non è detto che mantenga queste caratteristiche per tutta la sua durata, perché la guerra è un camaleonte, come ha ripetuto fino alla nausea Clausewitz. E un’escalation, rotte le poche e labili regole chiaramente interpretabili da tutte le parti in gioco, è sempre possibile, imprevedibile e, una volta attivata, non ha nessuna possibilità di marcia indietro. Detto in altre parole, costringere la Russia in un angolo, costringere un Paese dotato del più grande arsenale nucleare al mondo contro un muro non è una brillante idea.
La Russia con l’aggressione all’Ucraina ha vestito i panni della potenza revisionista, potenza che non accetta più l’attuale ripartizione delle forze. Non si sta discutendo di giusto o sbagliato da un punto di vista morale, non siamo nel campo dei giudizi di valore, per dirla con Weber. Può darsi che abbia sbagliato calcoli, che si sia fidata troppo della sua forza, che abbia sottostimato la volontà ucraina, che abbia contato sulla debolezza del corrotto occidente e interpretato male l’ingloriosa ritirata americana da Kabul. Ma Mosca rimane pur sempre l’erede dell’Urss, con più di 6mila testate nucleari.
Un esempio storico sui rischi che stiamo correndo. In un articolo su Bloomberg del 3 maggio, a proposito del funzionamento delle sanzioni economiche, il giornalista faceva l’esempio dell’entrata in guerra del Giappone nel secondo conflitto. Se le sanzioni non sono efficaci, esse fanno male solo a chi le ha varate, se invece mordono, se raggiungono risultati notevoli, esse hanno la forza di vere e proprie armi. Davanti alla politica imperialista giapponese in Asia, l’amministrazione Roosevelt decise nel 1940 di aiutare il governo cinese finanziariamente, e poi di inviare aerei e piloti volontari in Cina. In parallelo Washington cercò di colpire il Giappone sull’economia, bloccando l’export di materiale aereo, combustibile, ferro e altri beni. Quando poi le forze giapponesi si mossero nel sud dell’Indocina nella metà del 1941, il presidente americano dichiarò un embargo totale del petrolio. Il Giappone era estremamente vulnerabile alla coercizione economica, infatti importava dagli Stati Uniti l’80 per cento del petrolio, il 90 per cento della benzina, il 74 per cento dell’acciaio ed il 60 per cento dei macchinari.
Tokyo si sentì, così dichiarò un funzionario nipponico, come un pesce in un acquario a cui piano piano fosse tolta l’acqua, e così arrivò la decisione disperata di attaccare Pearl Harbor. In pratica, il governo nipponico decise il tutto per tutto e si gettò in una guerra che portò alla fine dell’Impero. Come dichiarò Hideki Tojo, generale e primo ministro giapponese durante la guerra, il Giappone si appellò al coraggio e come un tuffatore chiuse gli occhi e si buttò.
La Russia non è il Giappone, non ha la sua forza militare, ma ha trasformato la guerra in Ucraina in una guerra identitaria: lo dimostrano la retorica, i riferimenti alla “guerra patriottica” contro il nazismo, la lotta contro il corrotto Occidente. Putin insomma non se ne andrà dall’Ucraina a mani vuote, mai lascerà la Crimea, né le terre conquistate. E da qui, purtroppo, dobbiamo partire se vogliamo la pace. Chiamate alle armi in nome della morale e della giustizia, per virtuosi motivi, chiudono le porte in faccia alla realtà.
Altrimenti l’alternativa è una sola, ma dobbiamo sceglierla con consapevolezza sapendo a cosa andiamo incontro.
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