L’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle si è contraddistinto per un elevato numero di guerre in corso, come denunciato da Papa Francesco nelle sue invocazioni per la pace. Si aggiungono poi molteplici pericolose crisi a livello geopolitico e nelle situazioni interne di vari Stati: si pensi alle crisi in Georgia, Corea del Sud o Romania, solo per fare alcuni esempi. Il 2025 non si presenta quindi bene, a meno di sperare che anche i vari governanti e detentori di potere si impegnino in buoni propositi per l’anno nuovo, come veniva richiesto un tempo a noi bambini. Buoni propositi perché non solo si ponga fine alle guerre in corso, ma si raggiunga una vera pace e si risolvano i problemi che potrebbero produrre nuovi conflitti. Tanto più che il 2025 sarà l’anno del Giubileo, un Anno Santo che speriamo possa essere tale non solo per il mondo cattolico.
Insieme alla speranza, occorre rendersi conto che le guerre non risolvono i problemi, solitamente ne creano di nuovi; esse sono estremamente costose e dolorose, anche per chi apparentemente le vince, e in moltissimi casi potrebbero essere evitate, se lo si volesse. La guerra non è una continuazione della politica con altri mezzi, come affermava von Clausewitz, ne è la negazione e bisogna ridare alla politica e alla diplomazia il loro ruolo fondamentale nella soluzione dei problemi.
Quanto precede può essere probabilmente definito un bel discorso, ma del tutto teorico, wishful thinking direbbero gli inglesi. Eppure, se non ci si vuole arrendere alla inevitabilità della guerra, questa è l’unica strada. Un esempio è l’attuale guerra in Ucraina. Buona parte dei commenti condivisi dall’opinione pubblica occidentale partono da una constatazione di fatto: la Russia, governata da un regime non democratico, ha invaso l’Ucraina violando il diritto internazionale. Gli ucraini non potevano che legittimamente difendersi e le democrazie occidentali non potevano esimersi dal sostenerli finanziariamente e militarmente.
Una posizione, questa, realistica e aderente a quanto successo dal 2022, ma la storia inizia qualche decennio prima con il crollo dell’Unione Sovietica. Non vi è dubbio sulla volontà della maggioranza degli ucraini di far parte dell’Europa occidentale e che sia da rigettare la tesi nazionalista russa di un’Ucraina indissolubilmente legata alla Russia, ripresa ultimamente anche da Kirill, patriarca ortodosso di Mosca. Tuttavia, si è rivelata irrealistica l’ipotesi di troncare ogni rapporto con la Russia, cui l’Ucraina è legata da secoli di storia. Il suo stesso nome, “Terra di confine”, indica l’importante ruolo che può svolgere di ponte tra la Russia e il resto dell’Europa.
È pensabile che questo ruolo dell’Ucraina possa essere di scarso interesse per il regime moscovita, che preferirebbe averla come Stato satellite tipo Bielorussia. Tuttavia, avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario delle democrazie occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti. L’analisi della politica di Washington in tutti questi anni consente l’ipotesi che si sia cercato volutamente lo scontro con la Russia. Si sperava, probabilmente, in un indebolimento dell’attuale sistema, riportando così la Russia in una situazione meno antagonista e più dipendente dagli Stati Uniti.
Un obiettivo che non sembrerebbe essere stato raggiunto. Nonostante l’errore iniziale di Putin, con il suo tentativo di regime change a Kyiv e la conseguente umiliante ritirata, attualmente Mosca sta vincendo sul campo, pur con rilevantissimi costi. Né è stato raggiunto l’altro obiettivo, mirante a un sostanziale isolamento di Mosca, che si trova invece sostenuta da una serie di Paesi che, sia pure con interessi divergenti, si trovano uniti nel contrapporsi alle pretese egemoniche degli Stati Uniti.
Riconsiderando oggettivamente i fatti di una decina di anni fa, emerge netta la sensazione di una spregiudicata strumentalizzazione delle manifestazioni spontanee nella piazza Maidan a Kyiv. Così come emerge la pesante intromissione di Washington nelle scelte di governo dell’Ucraina, con emarginazione dell’Unione Europea, evidenziata dalla famosa esclamazione di Virginia Nuland, allora vicesegretario di Stato, durante una telefonata con l’ambasciatore statunitense in Ucraina: “Fuck Eu”.
La progressiva chiusura verso la forte minoranza russa in Ucraina ha portato al separatismo delle due repubbliche del Donbass, senza dubbio sobillata da Mosca, e alla guerra iniziata nel 2014. Gli accordi cosiddetti Minsk 2, del 2015, che prevedevano l’attribuzione di un autogoverno del Donbass all’interno dell’Ucraina, non sono mai stati attuati. Si è ricominciato a parlare di una possibile, sebbene futura, adesione dell’Ucraina alla Nato, mossa che non poteva non essere considerata ostile da Mosca.
La situazione sul campo sta diventando sempre più difficile per l’Ucraina e i russi continuano ad avanzare. Lo stesso Zelensky è passato dal proclamare la continuazione della guerra fino alla cacciata dell’invasore al sostenere la soluzione diplomatica per il Donbass e la Crimea. Da Washington, tuttavia, nessun segnale in questa direzione. Dopo la fuga dall’Afghanistan, probabilmente Biden non se la sente di rinunciare alla “faccia feroce” finora tenuta verso il Cremlino. Il tutto viene demandato al presidente eletto, Donald Trump, che avrebbe sistemato la questione in poco tempo. Intanto in Ucraina si continua a morire.
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