I fatti dolorosi a cui stiamo assistendo sul fronte orientale del contesto europeo, così incerti nei loro possibili sviluppi futuri, ci costringono a guardare con disincantato realismo allo scenario in cui essi affondano le radici.
Innanzitutto ci mettono rudemente di fronte al fatto che la legge che governa la convivenza tra gli Stati non è lo spirito filantropico, e neanche l’inclinazione all’integrazione reciproca. È stato così fin da quando il mosaico dei complessi statali ha cominciato a consolidarsi assumendo forme via via più moderne. E questa conflittualità endemica si è ora enormemente intensificata agganciandosi alle tensioni più generali che vedono contrapporsi le strategie di una molteplicità di attori sull’intera scala planetaria globalizzata.
Inserendosi in un teatro di competizione permanente, ogni organismo statale si lega al potere che lo tiene insieme. Suo destino irrinunciabile è lo sviluppo di un dominio, o di una capacità di controllo che si diffonde su un territorio e si irrigidisce in un blocco di forze applicate al suo mantenimento. Non c’è bisogno di essere spietatamente machiavellici per riconoscere che la vita degli Stati è attraversata da questa logica di fondo della conquista e della gestione, resa il più possibile stabile nel tempo, di una potenza. Poi è chiaro che ci sono molti modi diversi per interpretarne l’esercizio.
Il potere di comando può essere addomesticato, aderendo ai vincoli di un sistema di regole tendenzialmente condivise in un concerto di partner con cui si deve interagire. Si può anche arrivare a ipotizzare, come apologetico orientamento ideale, che “la Maestà” debba conciliarsi, per essere tutelata nel modo più efficace, “con la Giustizia e la Clemenza”: è il titolo dell’impresa ventiduesima nella ricca galleria di icone proposta dall’Idea del principe politico christiano di Diego Saavedra Fajardo nell’Europa del primo Seicento. Oppure, molto più prosaicamente, può emergere in primo piano la ricerca dei mezzi più sbrigativi e più diretti per dare seguito ai propri punti di vista, in una contesa in cui l’elemento ideologico non è mai allo stato puro, ma si presta a camuffare, tentando di “legittimarli”, progetti di autoaffermazione e appetiti espansivi dietro i quali si manifesta il volto più intollerante e possessivo del potere che così viene messo a nudo, smascherato. Sempre, ora in uno stile più disciplinato, ora in forme spietate, aggressivamente disposte a far scorrere il sangue per far prevalere le proprie ragioni, il nucleo di fondo della “ragione di stato” nasconde il nervo sensibile della volontà di difesa della propria soggettività, in urto con altre potenze sullo scacchiere dello spazio terrestre.
Lo sfondo conflittuale aiuta a spiegare come mai il difficile bilanciamento complessivo tra i diversi Stati europei è stato costantemente multipolare. La minaccia estrema da respingere era quella delle mire egemoniche che mettevano in discussione la distribuzione dei pesi in un ventaglio di entità politiche di varia natura, giustapposte una all’altra. Stati di primaria grandezza, Stati minori, piccoli Stati cuscinetti e minuscole entità regionali potevano coesistere ritagliandosi ognuno il proprio segmento, a volte decisamente esiguo, dentro una costellazione policentrica. Quando si alteravano i pesi, se uno dei piatti della bilancia aumentava troppo il suo ingombro, si scatenavano le reazioni a catena delle entità penalizzate o sotto minaccia per creare cinture difensive e tentare di ripristinare più giuste proporzioni. Questo meccanismo – il principio dell’equilibrio europeo – ha permesso di contenere le spinte centrifughe degli interessi unilaterali dei singoli Stati. Ha governato le macchinazioni complesse della diplomazia internazionale e limitato i danni distruttivi della forza militare spinta fino all’offesa dei propri avversari sui fronti di guerra.
Ma la tendenza al mantenimento dell’equilibrio si imponeva proprio perché c’era una tensione da preservare tra poli diversi, che così si temperavano a vicenda. Era negata alla radice la possibilità di una “monarchia universale”. E quando un centro dominante si ingigantiva troppo a scapito degli altri centri, prima o poi le contraddizioni interne, unite alla pressione delle forze rivali, finivano per sfiancarlo, anche a costo di passare attraverso il duro regolamento dei conti sui campi di battaglia. Se invece il policentrismo viene dimenticato, quando la salvaguardia di un bene settoriale diventa chiusa e autoreferenziale, si alimentano sogni di dilatazione della propria potenza che relegano del tutto in secondo piano il problema di come conciliarla con gli interessi e i diritti degli altri soggetti con cui si è in relazione. Il sistema dei freni reciproci si inceppa. L’altalena incessante del negoziato si sterilizza e la convivenza si espone al rischio di essere travolta dalla lotta per la conquista di un primato che comunque non può puntare ad annientare il rivale sconfitto: il rivale si può sconfiggere, si può cercare di diminuirlo, ma non lo si può rimuovere completamente dalla scena.
La perdita del bilanciamento tra singoli Stati e tra schieramenti o coalizioni di Stati chiamati a gestire il loro venire a contatto in uno spazio comune ha sempre prodotto l’effetto di favorire il prendere corpo di vocazioni sostanzialmente “imperialiste” da parte delle entità politiche più robuste, che allora si proiettavano verso l’assimilazione o la subordinazione di altre entità più deboli per ridurle a supporto della propria parabola di crescita. Si potevano anche sviluppare “imperialismi” simultanei concorrenziali, che entravano in rotta di collisione tra di loro. E tutto questo ha molto a che fare non solo con la storia di un passato remoto, ma anche con la situazione nella quale ci si è arenati negli ultimi decenni.
Come era avvenuto già nella crisi dei Balcani alla fine del secolo scorso, il risveglio della conflittualità interna allo spazio europeo è anche l’esito di un altro fenomeno importante che si è verificato nell’ultima fase della modernità: la tendenza all’inglobamento delle identità nazionali nelle reti delle strutture statali, con la pretesa degli Stati moderni di costituirsi essi stessi nella forma di una comunità nazionale compattamente omogenea e coesa (una patria). Le “nazioni”, però, non sono realtà di tipo etnico o peggio ancora razziale. Non esistono nello stato di natura. Si formano evolvendo storicamente, rimescolandosi a vicenda, assorbendo apporti molteplici, dando vita a incroci, fusioni e meticciati continuamente in divenire. Questo è stato particolarmente vero per il confine orientale dell’amalgama europeo: una terra che è sempre stata di passaggio, di riposizionamento di popoli e di sovrapposizioni cumulative, esposta ai flussi migratori verso ovest delle popolazioni centroasiatiche, agli innesti di elementi europei occidentali ed ebraico–mediterranei, all’espansionismo dei maggiori centri di potere prima del mondo antico, poi delle epoche successive: la Bisanzio ortodossa, l’imperialismo ottomano, la potenza asburgica che si allargava dal cuore del mondo germanico e, in senso contrario, quella potenza russa che dal tardo Medioevo aveva raccolto l’eredità simbolica del glorioso principato di Kiev, rilanciandone il prestigio in nuove direzioni.
Gli aggregati fondati su una comunanza di lingue, di tradizioni religiose e di radicamento nel medesimo territorio hanno dovuto adattarsi in modo fluido al perenne ridefinirsi delle strutture di potere con cui si intrecciavano o da cui erano costrette a lasciarsi sovrastare, cedendo alla superiorità dell’ultimo dominatore in ascesa. La regola rimaneva sempre la pluralità: i ceppi di tipo nazionale fuoriuscivano dai confini degli Stati, e uno Stato (pensiamo alla “duplice monarchia” austro–ungherese, che arrivò fino a Leopoli, allo stesso impero turco, alla composita galassia della Russia zarista e poi, in modi diversi, sovietica) poteva di norma includere, non sempre molto armoniosamente, gruppi umani ed entità culturali anche estremamente differenziati, avviati più o meno di buon grado a interagire nella cornice di una costruzione politica compartecipata.
La riduzione degli spazi di pluralismo transnazionale, l’esaltazione in senso biologico del cemento unificante degli Stati e l’ingabbiamento della disponibilità al confronto, anche competitivo, con l’altro da sé sono le leve che hanno esasperato la conflittualità e minano oggi le basi del nobile progetto di un’unica solidarietà paneuropea: quella capace di respirare a pieni polmoni nel vasto spazio di civiltà, frastagliato in tante identità multiformi, lacerato da contrasti riaccesi con tutta la loro violenza esplosiva, che va dall’Atlantico agli Urali.
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