La guerra in Ucraina c’è e si vede. O, forse, c’è perché si vede. Tutti i giorni, ossessivamente, ci arrivano immagini di case rase al suolo, fosse comuni, donne che fuggono con i bambini, anziani che si aggirano cercando di recuperare qualcosa tra le macerie o di che sfamarsi. C’è sempre un inviato di guerra o qualcuno che riprende ogni scena. La guerra si vede, appunto. E le immagini ci stringono il cuore, la sofferenza delle vittime ci commuove, ci avvicina a chi la sta provando.
Per la nave russa colpita e affondata, l’incrociatore Moskva, non è andata così. Tra i marosi non c’erano reporter o testimoni pronti a riprendere corpi dilaniati dall’esplosione, marinai feriti sbalzati in acqua, il sangue che macchia il mare mescolandosi all’olio fuoriuscito dai motori… E se la guerra non si vede, non c’è. Punto e basta. Alla televisione non restano che qualche filmato di repertorio della nave e scarni comunicati stampa dei comandi russi.
“C’è stato un incendio a bordo con evacuazione dell’equipaggio, l’incendio ha fatto esplodere un deposito di munizioni, la tempesta ha ostacolato il traino della nave, che è affondata… ha trascinato con sé il capitano e parte dei cinquecento marinai e ufficiali”. Così si conclude la parabola dei comunicati, rigorosamente senza immagini: se esistono, i comandi russi non hanno interesse a diffonderle. Così nessuno resta incollato al televisore: manca la scena del mare che irrompe nello squarcio della nave, o quella dei corpi avvolti dalle fiamme. Eppure, quanta sofferenza devono aver patito quei militari, quale tragedia dalla terraferma si è spinta lontano, in mare aperto.
Quando ho appreso la notizia dell’affondamento mi è venuto un groppo in gola, perché le immagini che nessuno ha visto io le avevo già nella mente, grazie ai racconti di mio padre e mio nonno – militari in Marina – quando ero ragazzino. La seconda guerra mondiale era finita da poco ed io crescevo a La Maddalena, in Sardegna: proprio una delle basi navali italiane. All’inizio del 1943 le sorti della base di La Maddalena erano ormai segnate. Il 10 aprile, 86 fortezze volanti statunitensi scaricavano sulle navi in rada tonnellate di bombe. Gli abitanti dell’isola guardano impotenti l’incrociatore Trieste affondare. L’8 settembre l’Italia firma con gli Alleati l’armistizio e la reazione della Germania non si fa attendere. Tre nostre navi, in navigazione verso La Maddalena, vengono attaccate il giorno dopo. Gli aerei tedeschi usano per l’occasione un nuovo tipo di bombe teleguidate che colpiscono la corazzata Roma facendo esplodere la santabarbara. L’imponente nave si spezza in due e cola a picco. Muoiono duemila uomini in quei giorni e centinaia di feriti vengono portati dalle lance di soccorso fino alla banchina dell’ospedale militare: un’ala dell’edificio è stata bombardata e ci sono brande di fortuna anche nel cortile.
Oggi, i turisti che da Maddalena vanno a Caprera passano di fronte all’ospedale ormai dismesso: si disperdono tra cale e spiagge di un arcipelago meraviglioso. Anch’io torno per le ferie, ma porto con me, indelebili, le immagini di guerra e di dolore che facevano da sfondo ai racconti della mia famiglia. Quei racconti di allora mi parlano della tragedia della nave russa più di un reportage, che peraltro nessuno ha realizzato: ci sono storie di guerra e guerre dimenticate che la cronaca ignora, guerre che – a ben vedere – ci sono anche se nessuno ce le mostra. E non importa che le vittime appartengano ai vincitori o ai vinti, a questo schieramento o a quello: meritano comunque la nostra pietà.
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