In uno dei capolavori più affascinanti di quel grande storico che è Dominic Lieven, ossia in Russia against Napoleon. The Battle for Europe, 1807 to 1814, si trova magistralmente rappresentato il nodo gordiano dinanzi al quale sempre la Russia si trova quando, nella sua storia secolare, i suoi gruppi dirigenti temono di essere smembrati con la loro patria mortificata, le loro terre e i loro averi, la loro Chiesa e la loro dominazione euroasiatica dileggiata, siano essi aristocratici cosmopoliti zaristi protesi alla gloria imperiale oppure oligarchi razzisti e nazionalisti come i seguaci odierni di Putin protesi alla sopravvivenza e alla sopraffazione.
La lotta per la sopravvivenza diviene allora la scelta della “soluzione finale” e dinanzi a qualsiasi pericolo non si teme più di porre fine alla stessa esistenza della Russia purché questo significhi anche la fine dell’aggressore.
È ciò che oggi accade tra Russia e Ucraina. Putin al Cremlino dichiara formalmente l’annessione dei territori “piccolo-russi” dell’Ucraina e Zelensky risponde che l’Ucraina chiede formalmente l’annessione alla Nato. Il dado è tratto. Non si fanno prigionieri e il gioco è a somma zero. Fine della diplomazia: inizio di una guerra permanente che speriamo sia a bassa intensità e non nucleare.
La dichiarazione di Obama del 2013, quando si escluse la Russia dal G7 e si indicò in essa una potenza solo regionale, inizia a veder svolgere questo dramma sotto i nostri occhi. Una potenza aggressiva come la Russia, prima in Georgia e poi in Ucraina nel 2014, fu destinata a subire di nuovo una caduta di potenza e a essa si rispose con la brutalità della guerra siriana. Ma la Russia non era di già mai guarita della mortificazione eltsiniana, quando fu spogliata dai Chicago Boys delle sue risorse. Poi Putin sostituì colui che aveva scacciato Gorbaciov nelle vesti di alfiere della rivincita russa, una rivincita nazionale e militare insieme. La presa del potere di Putin era diretta a ridare dignità di grande potenza internazionale alla Russia, smentendo la profezia obamiana.
Una lotta che non è mai finita negli ultimi vent’anni e che ha avuto la sua espressione più drammatica non solo in Crimea e in Ucraina, ma soprattutto in Libia e in Siria e quindi in quel plesso atlantico aperto verso l’Indopacifico attraverso il Canale di Suez che continua a essere il Mediterraneo.
L’aggressione imperiale e imperialistica all’Ucraina si è trasformata, nonostante la sconfitta militare e strategica russa sul campo delle armi, in una battaglia per il potere europeo. Gli Usa si sono messi in movimento contro la Russia che aggredisce e aggredisce e aggredisce, dinanzi alla paralisi militare e diplomatica e alle divisioni degli Stati europei, legati l’un con l’altro dai trattati Ue e quindi dilaniati dalle loro contraddizioni e rivalità: senza costituzione federale, senza esercito unico, senza banca centrale e solo con debito pubblico mutualizzato post-pandemico. Dilaniati dalle divisioni economiche, come dimostra la crisi energetica, i sabotaggi né russi né ucraini ai gasdotti baltici, le politiche economiche testardamente monetariste per domare un’inflazione da offerta anziché da domanda e quindi destinate solo ad alimentare ulteriormente le divisioni interne al continente europeo e che neppure la minacciata guerra atomica riesce a superare, a domare.
Per questo gli Usa hanno deciso di realizzare con la Nato quello che pensarono di poter realizzare al tempo del “socialismo reale” con l’Ue e poi con l’entrata del Regno Unito nella stessa Ue con l’atomica ma senza l’euro, nella metà degli anni Settanta del Novecento, quando i russi raggiunsero il predominio nei missili balistici nucleari a medio raggio. Pensavano di realizzare un antemurale invalicabile contro la Russia. Allora sovietica. Oggi capitalistica e dittatoriale, imperialistica e ortodossa e sempre protesa a divenire nuovamente una potenza non regionale. Ruolo impossibile da incarnare, come dimostrò anni e anni orsono Paul Dibb: la gracilità economica dell’immensa Russia non consente di reggere un ventre militare gonfio e pesante, tanto inefficiente quanto minaccioso.
Quella in corso è una nuova battaglia per il dominio dell’Europa. Il capitalismo Usa si candida con le armi e con l’abbandono dell’unilateralismo e il cambio della spalla del fucile. Ora in forma non più metaforica. Come nella Guerra dei sette anni che fra il 1756 e il 1763 oppose la Gran Bretagna e la Prussia alla Francia e all’Austria e a Russia, Svezia, Polonia, Sassonia (e più tardi Spagna), della Francia e dell’Austria alleate. Quella guerra, che fu la prima delle guerre mondiali che poi imperversarono sul pianeta, affermò la supremazia militare della Prussia in Europa, la preponderanza dell’Inghilterra sui mari con il dominio in America e in India. A noi oggi conta euristicamente sottolineare che quella guerra candidò decisamente la Russia a potenza mondiale ed elevò l’Inghilterra alla leadership mondiale.
Come allora il destino del mondo continua a decidersi in Europa. È in Europa che si bloccano, con le aspirazioni transnazionali tedesche (di integrazione tra il capitalismo tedesco e quello russo e quello cinese) sia la Cina sia la Russia, confermando in tal modo per sempre uno stato di sudditanza a cui si consegna la Germania: il rimanere una potenza di terra. Ora le armi tedesche dovranno servire a sconfiggere sia la Russia sia la Cina, non alla potenza germanica. Più difficile sarà far lo stesso con la Francia, l’unica potenza nucleare e marittima europea, che potrebbe svolgere un ruolo imperiale, ma che, come la Russia, per svolgere quel ruolo non ha i mezzi (se mai li ha avuti). L’Italia è un potenza media e passiva che si affaccia sul Canale di Sicilia e quindi sul plesso mediterraneo che guarda – tramite Suez – all’Indopacifico e non svolge più nessun ruolo di mediazione come quello che svolgeva un tempo grazie all’abilità diplomatica di bilanciamento degli interessi di potenza nordafricani e mediorientali, dalla Libia all’Egitto. Il domino dell’Europa è ora deciso dal potere delle armi e la guerra di Ucraina sancirà la decisione americana di imporre questo potere grazie al contributo finanziario degli Stati europei piuttosto che dei contribuenti statunitensi.
La guerra per l’Europa ora passa per Kiev. E Kiev si candida a far parte di quel potere in una sorta di nuovo risorgimento anti-zarista che ha assunto una versione transoceanica attraverso non più la diplomazia, ma il rafforzamento della Nato sul fianco Nord: fianco che guarda all’Artico e quindi alla Siberia e quindi a connettere i due Oceani grazie al Canale del Nord e senza rivali della potenza Usa: la Russia sarebbe così sconfitta per sempre e la sua immensità diverrebbe la sua condanna.
Per la Russia sarebbe lo spettro dell’eliminazione come potenza mondiale e forse anche come nazione post-imperiale.
Possiamo, come umanità, correre il rischio della guerra nucleare per continuare ad alimentare questo risentimento profondo e angoscioso?
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