In quest’ora buia e per noi incomprensibile, le notizie provenienti dall’Ucraina ci appaiono come un vero e proprio terremoto della ragione. La logica di un leader autocratico sta facendo barcollare quella del nostro stesso mondo e rischia di farci sprofondare in una notte interminabile nella quale la prima vittima, anche se non l’unica, è certamente il popolo ucraino.
Dinanzi ad una tale catastrofe non si tratta solo di condannare e schierarsi, né solamente di aprire immediatamente dei negoziati, ma diviene altrettanto necessario non esportare la guerra al di fuori della dimensione militare, permettendole di arrivare a dilagare in quella morale, discreditando le culture e le persone. Il caso verificatosi in una delle più autorevoli università del Nord Italia, quella di Milano Bicocca, dove si è arrivati ad ordinare di sospendere le conferenze di Paolo Nori su Dostoevskij, dimostra quanto un simile errore sia alla portata di tutti e nemmeno un tempio della ragione, quale dovrebbe essere un’università in uno Stato democratico, è stato capace di intercettarlo e di evitarlo.
Ma l’incendio della dimensione morale è ancora più dirompente quando si arriva ad intimare, a qualsiasi cittadino russo che già si trovi sotto i riflettori, di rilasciare pubbliche dichiarazioni di condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte del premier del proprio paese. In questo caso si commette un errore ancora più grave.
È stato così per il maestro Valery Gergiev – un esempio tra i tanti – la cui mancata abiura di Putin gli è costata la rimozione dalla direzione dell’opera La Dama di Picche di Tchaikovsky. Non è stata una reazione solo italiana, le rimozioni del maestro Gergiev si sono prodotte anche in Germania e in Austria. È facile pertanto immaginare l’effetto valanga che una tale attitudine potrà comportare, ingenerando una rinnovata edizione di quella “caccia alle streghe” inaugurata dal senatore Joseph McCarthy negli anni Cinquanta.
È possibile limitare i danni al solo recinto dello scontro militare evitando di estenderlo anche alle coscienze dei singoli? È possibile non ripetere gli errori fatti nel passato con personalità quali Martin Heidegger, Herbert Von Karajan e Kurt Waldheim, rispettivamente filosofo, direttore d’orchestra e presidente della repubblica austriaca? È possibile distinguere la propaganda pubblica filo-putiniana dai legami privati delle singole coscienze, evitando così di alimentare il volume dell’odio? La risposta è necessariamente affermativa: non solo è necessario, ma è anche doveroso, e questo per almeno due ordini di ragioni.
Le prime sono di ordine strutturale. In caso di conflitto bellico l’informazione, diventando parte integrante dello scenario di guerra, va trattata con prudenza e responsabilità. Alle bombe reali possono infatti seguire bombe mediatiche con effetti non meno devastanti. Per di più, in una società della iper-comunicazione come quella attuale, dove il flusso delle notizie è amplificato oltre qualsiasi ragionevole limite, le campagne d’opinione possono raggiungere facilmente livelli di violenza morale tali da risultare ingovernabili nelle conseguenze.
Le ragioni di ordine analitico riguardano invece la sostanza del singolo fenomeno sotto esame: in questo caso quello della fiducia nel rappresentante politico del proprio Paese.
Il legame che i regimi totalitari tessono intorno ai popoli che li legittimano non è analizzabile alla luce di una banale dipendenza psicologica o, se si preferisce, di un’illogica regressione di massa della quale quest’ultimi porterebbero l’intera responsabilità.
I leader autocrati, oggi come nel passato, hanno sempre fatto della ricerca del massimo consenso la loro principale arma di legittimazione. Per riuscirci non hanno fatto ricorso solo all’intimidazione degli oppositori, ma hanno proceduto a ben più ampie iniziative di conquista dell’opinione pubblica. La tela di ragno che il potere di un dittatore tesse intorno al proprio popolo è sempre opera di lungo periodo. Per anni, questi intreccia paternalismo e rassicurante efficienza, semina senso di sicurezza e diffonde fierezza identitaria. In questa strategia, l’edificazione del muro simbolico-culturale che separa il Noi dal Loro costituisce la pietra angolare, il cemento con il quale il leader definisce il proprio carisma e alimenta il proprio consenso.
Ed è proprio in presenza di una simile strategia che occorre rendersi conto che ogni gesto di emarginazione della cultura russa e delle persone che la rappresentano, ogni pretesa di abiure ufficiali da parte del singolo (sia questo il direttore d’orchestra, l’artista o l’atleta di turno), non solo alimenta una campagna incontrollabile di denigrazione a priori, ma soprattutto contribuisce a favorire il dittatore stesso, che dalla contrapposizione identitaria tra Noi e Loro trae linfa vitale per legittimarsi ulteriormente dinanzi alla sua nazione.
Non possiamo permettere che oggi, qui ed ora, la follia di un leader – per quanto condivisa all’interno del suo paese da molto di più di una cerchia di pochi oligarchi – si trasformi nella squalifica di un intero popolo che vi è stato fatto precipitare dentro.
Nulla di più irresponsabile di uno stupido embargo sulla cultura russa, sui nostri colleghi, sui nostri amici, sui loro libri, la loro musica e l’immenso patrimonio che abbiamo lentamente appreso ad amare in questi decenni. Nulla di più improvvido che la richiesta di sconfessioni, pubbliche e solenni, da parte di novelli Torquemada. Questi atteggiamenti non solo non ci aiutano, ma soprattutto rischiano di rafforzare il cerchio mortale con il quale Putin ha stretto il suo popolo legandolo alla sua immagine. Saper distinguere una leadership dal popolo che l’ha riconosciuta e legittimata è un atto doveroso quando si è al corrente di come questa ha operato per decenni, nonché delle pressioni e delle repressioni che è stata ed è capace di infliggere e delle quali siamo solo parzialmente a conoscenza.
Sono errori che abbiamo compiuto nel passato, là dove l’odio verso il leader si è riversato sul popolo che questo leader si arrogava di rappresentare. I danni sono stati incalcolabili, le vittime infinite. Sono errori che, alla luce delle lezioni della storia, non siamo condannati a ripetere ma, al contrario, possiamo e dobbiamo evitare.
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