Sono tornato sabato sera da Kiev, dove ero arrivato il martedì precedente per visitare alcune famiglie di Kharkiv che avevo ospitato all’inizio della guerra.
Finora mi ero fatto uno scrupolo ad accettare il loro invito, ma adesso, anche per suggerimento di chi condivide con loro di più la sofferenza, ho capito che avevano bisogno di una vicinanza, anche fisica, che aiutasse a dare concretezza a quella parola “amicizia” che a volte usiamo in un modo un po’ astratto.
Siamo capitati, io e un amico che ha voluto accompagnarmi, proprio nel giorno del massacro causato dal missile caduto sull’ospedale pediatrico. Per di più, arrivando a Kiev ho scoperto che il padre di una ragazza che era tra i miei ospiti è il colonnello Sergei Krivoshlikov, comandante del gruppo speciale dei Vigili del fuoco che si occupa in modo specifico degli interventi dopo i bombardamenti.
Egli, che solo mercoledì sera aveva concluso la sua opera di soccorso, ci ha fatto visitare quello che resta dell’ospedale, dove ci è stato fatto incontrare il direttore sanitario. Costui ci ha raccontato i particolari, anche agghiaccianti, dell’evento, senza dimenticare di dirci che se avessero avuto più missili terra-aria di difesa, quei bambini e quel personale sanitario non sarebbero stati uccisi.
Nei giorni successivi ci siamo uniti al momento di preghiera interconfessionale indetto dal nunzio Vivaldas Kulbokas (che avevo conosciuto anni fa, ancor giovane diplomatico, dopo il viaggio di papa Francesco a Cuba) e poi agli incontri che il MEON aveva organizzato con funzionari del governo ucraino.
Nelle discussioni abbiamo potuto constatare che tra i responsabili dell’Ucraina la parola d’ordine non è pace, ma vittoria. Alla mia domanda che cosa intendessero per vittoria, mi è stato risposto che doveva essere l’abbandono da parte dell’esercito russo di tutti i territori occupati, compresa la Crimea. Mah.
La vita in città sembra normale, almeno fino a che non suona la sirena e tutti devono scendere nei rifugi. Manca spesso l’energia elettrica e a mezzanotte comincia il coprifuoco, si vedono alcuni palazzi compiti e qualcuno comincia a pensare che neanche Kiev è ormai troppo sicura.
La recentissima “apertura” di Zelensky a trattative di pace, anche con la partecipazione diretta di rappresentanti della Federazione Russa, sembra, speriamo, preludere a una possibile svolta. Del resto la Santa Sede lo ha sempre auspicato e in questo senso non sono mancate, due settimane fa, parole di apprezzamento persino da Putin.
La paura della “tempesta Trump” che sta per riversarsi sul mondo non è qualcosa, come normalmente si pensa, che riguardi solo l’Ucraina. Uno che potrebbe “imporre la pace” è sicuramente un problema anche per la Russia, che in questo momento ha paradossalmente bisogno di una certa “protezione” da quell’amicizia asfissiante che la sta legando alla Cina, ormai proclamatasi difensore dei diritti dei popoli dell’Asia Centrale dalle pretese egemoniche su quei Paesi da parte della Russia.
Come si vede la situazione è ancora molto complessa, ma nel quadro della complessità ci può essere posto anche per qualche speranza. In questo senso ci stiamo già attrezzando.
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