Nella soluzione della crisi di Cuba – speculare, sessant’anni fa, all’odierna crisi ucraina – fu centrale il ruolo non ufficiale giocato da Robert Kennedy, fratello del presidente degli Stati Uniti. Fu il segretario alla Giustizia, istituzionalmente laterale nella gestione dell’escalation geopolitica con l’Urss, ad attivare il vero “telefono rosso” fra la Casa Bianca e il Cremlino, al fine di disinnescare i missili sovietici spuntati nella Cuba neocastrista.



All’ambasciata russa a Washington era appena arrivato il giovane Anatoly Dobrynin, il miglior allievo di Andrej Gromyko, leggendario capo della diplomazia moscovita durante la Guerra fredda. Furono RFK e Dobrynin a negoziare quasi in privato una “de-escalation” di sostanza (il ritiro contestuale dei missili russi da Cuba e di quelli americani dalla Turchia), che scongiurasse la Terza guerra mondiale, salvando però le forme, cioè le leadership di JFK e di Nikita Krushev. Nessuna delle due, tuttavia, sopravvisse alla crisi di Cuba. Kennedy venne assassinato un anno dopo a Dallas (e cinque anni dopo toccò a Robert), mentre Krushev fu deposto nel 1964 da una sorta di golpe soft nel Pcus, che archiviò definitivamente l’era staliniana.



Dobrynin, invece, sopravvisse a Washington per un quarto di secolo, fin quasi alla caduta del Muro. E fu decisivo nella lunga distensione fra le due superpotenze del dopoguerra. Un processo che vide protagonisti i repubblicani Richard Nixon ed Henry Kissinger (iper-realisti anche con la Cina maoista) e il grigio leader sovietico Leonid Breznev, di fatto a capo di una “nomenklatura” di partito ormai sganciata dai furori rivoluzionari e bellici della prima metà del secolo.

Una lunga premessa per introdurre un confronto con gli sviluppi della crisi ucraina, ancora fra Usa e Russia, radicata nel “passato non ancora passato” della dissoluzione dell’Urss. Stavolta è Mosca a lamentare un (presunto) azzardo invadente di Washington nel voler schierare i suoi missili (targati Nato) a poche miglia dalla frontiera russa. È Vladimir Putin a reagire a uno “sconfinamento” occidentale in una “zona d’influenza” mai del tutto cancellata dopo Yalta, neppure dopo il 1989.



Come all’Avana nel 1959, a Kiev dal 2014 sarebbe andata in scena una rivoluzione fortemente sospetta d’interferenza. Per gli Usa è stata e rimane “export di democrazia” (lo stesso, peraltro, non riuscito nel corso delle Primavere arabe nel Nord Africa, Libia compresa, piuttosto che in Iraq o Afghanistan). Per Mosca, che ha già risposto con l’annessione della Crimea russofona, la pretesa che l’Ucraina entri nel perimetro Nato è un inaccettabile atto ostile.

Il gioco di analogie e differenze fra autunno 1962 e inverno 2022 può continuare. Alla Casa Bianca c’è – ma all’attacco in Est Europa e non più in difesa nel Golfo del Messico – un “democrat” molto meno giovane e carismatico di Kennedy. Un Joe Biden che come vertice di un onesto cursus politico ha avuto otto anni di vicepresidenza di Barack Obama, altro giovane e carismatico presidente dem. E forse il primo e principale impaccio di Biden nella gestione della crisi ucraina è stato proprio questo: essersi ritrovato a sventolare vessilli idealistici (kennediani e obamiani), ma con la mano e la voce di un uomo di apparato dem utilizzato nel 2020 da un vasto establishment Usa per impedire a fatica la rielezione di Donald Trump (il cui spettro si sta rimaterializzando alle prossime elezioni statunitensi di midterm).

Al Cremlino c’è invece, da quasi un ventennio, un personaggio molto diverso da Krushev: quest’ultimo nato nella vecchia Russia rurale, forgiato nei terribili anni rivoluzionari, commissario politico nell’Armata Rossa durante la guerra anti–nazista, infine sopravvissuto alla sanguinosa successione a Stalin. Putin, nativo della capitale imperiale San Pietroburgo, brillante ufficiale del Kgb moderno (di stanza in Germania alla caduta del Muro), è il leader post-ideologico della maggiore “democratura” del pianeta e sembra aver rivestito i panni del classico scacchista russo contro il pokerista da saloon del West.

È stato abile – verosimilmente – nel muovere una pedina fondamentale, non a caso pronta da molti anni: l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, l’ultimo socialdemocratico a Berlino prima del lungo regno cristiano-democratico di Angela Merkel.

Sconfitto alla urne nel 2005, non ha perso tempo: si è subito riciclato come presidente di NordStream, il gruppo russo-tedesco che ha realizzato entrambi i gasdotti fra Russia ed Europa (anzitutto, la Germania). Nord Stream 1+2 è lo snodo politico-economico strutturale da sempre alla base dell’impasse geopolitica in Ucraina. La dipendenza europea dal gas russo è stata vissuta – e in parte è ancora vissuta – in Europa come un’opportunità, non meritevole del gioco puramente politico-militare “sui territori altrui” fra i vecchi rivali Usa e Urss.

Nessuno potrà o vorrà confermarlo, almeno in queste ore, ma è altamente probabile che sia stato Schroeder in questi giorni a funzionare da canale “RFK-Dobrynin”. Se Robert Kennedy era il fratello del presidente e l’ambasciatore un quadro di ferrea affidabilità per il Cremlino, Schroeder è stato il padre e maestro politico del neoeletto cancelliere Olaf Scholz, e contemporaneamente lo sperimentato tramite-garante fra Putin e Berlino (e l’Europa) quando in cancelleria regnava l’ex tedesca dell’Est Angela Merkel, notoriamente refrattaria al leader russo. Qualcuno può stupirsi se un cancelliere esordiente, poco conosciuto a livello internazionale e invisibile nella prima fase della crisi ucraina, abbia sfoderato nelle ultime ore una mossa apparentemente risolutiva?

È stato Scholz a volare a Kiev, dicendo apertamente alla presidenza ucraina (e quindi alla vicina Mosca) ciò che tutti si limitavano soltanto a pensare o sussurrare: che l’integrità del paese e l’espansionismo bellicista russo sono certamente preoccupazioni prioritarie per una comunità democratica come la Ue; viceversa l’Europa non giudica prioritario l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e lo schieramento di armi occidentali al confine russo. Poche ore dopo è stato Putin a cominciare – o almeno inscenare – il ritiro delle forze russe dal confine ucraino.

È presto per capire se la Ue ha ritrovato immediatamente una leadership tedesca, con Scholz, a sorpresa, subito al timone appena lasciato da Merkel e invano impugnato dal francese Emmanuel Macron, in campagna per la rielezione all’Eliseo. Non sarà facile valutare se sulla crisi ucraina a guida Biden l’Alleanza atlantica si sia paradossalmente fratturata più che durante la turbolenta presidenza Trump.

Sono difficili da prevedere tutti gli impatti politico-energetici di medio periodo, anche se forse lo scacchismo di Putin potrebbe raffreddare l’inflazione sul gas scientificamente incendiata dalla scorsa estate. Macron sta insistendo su una svolta europea verso il nucleare verde, con la Francia prima della classe: la Germania di Scholz (con la verde Annalena Baerbock agli Esteri) terrà duro sul gas russo e sullo sviluppo delle rinnovabili? E Biden, nel frattempo, resisterà a quella che si profila come una seconda “non vittoria” geopolitica dopo la disastrosa ritirata dall’Afghanistan?

JFK, non va dimenticato, esordì con il terribile “fiasco” della baia dei Porci a Cuba. E fu suo l’imprinting della guerra in Vietnam. Le amministrazioni dem aWashington – ultima quella di Obama, subito Nobel per la Pace – non sono di per sé garanzia di stabilità nel mondo, anzi, qualche volta, il contrario. Ma questo è un altro discorso.

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