“Sono praticamente ferme le partenze di cereali dai porti dell’Ucraina. Sono quindi a rischio le esportazioni verso i principali mercati di sbocco costituiti da Egitto, Turchia, Indonesia e Marocco. Il mercato internazionale dei cereali è sotto pressione, anche a causa delle stime relative alla contrazione dei raccolti in Argentina e Brasile per la carenza di piogge. È destinato a salire il costo per l’alimentazione del bestiame, che già alla fine dello scorso anno ha fatto registrare un rialzo del 30%.



I future relativi al grano sono saliti in un giorno del 6%, mentre sono in calo del 2% quelli del bestiame”. Non solo: secondo gli ultimi dati diffusi dalla Commissione europea in occasione della riunione del Consiglio Agricoltura del 21 febbraio, i prezzi del gas naturale hanno fatto registrare un aumento del 379% sul livello in essere nell’ultimo trimestre del 2020 e dal lato dei fertilizzanti, il prezzo dell’urea è salito nello stesso periodo del 245%.



“Ci preoccupa una crisi di sistema epocale” afferma Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, che dopo l’invasione russa in Ucraina lancia un allarme ad ampio raggio, chiedendo un piano di emergenza per l’agroalimentare, per gestire le conseguenze economiche delle sanzioni che l’Europa adotterà contro Mosca, e avvertendo le catene della grande distribuzione affinché si preparino a una nuova ondata dei prezzi di pasta, farine, pane e prodotti di pasticceria.

Guerra in Ucraina e sanzioni: Confagricoltura chiede un piano di emergenza per l’agroalimentare, coordinato dalla Commissione Ue, per gestire le conseguenze economiche di questa situazione drammatica: cosa vi preoccupa?



Ci preoccupa una crisi di sistema epocale. La guerra in Ucraina non sopraggiunge dopo un periodo florido, bensì dopo una lunga stagnazione, iniziata nel 2008 e aggravata dalla crisi Covid degli ultimi due anni. Risultato: ci sono moltissime piccole e medie aziende, tra cui le imprese agricole, che soffrono molto. Un quadro economico pesante oggi acuito da fattori esterni che rischiano di renderlo ancor più impattante e drammatico.

La guerra in Ucraina ha fatto di nuovo schizzare all’insù i prezzi di molti prodotti alimentari. E così?

I mercati hanno già segnato una forte instabilità delle materie prime ed è previsto un innalzamento dei costi dei prodotti agricoli di base almeno fino alla fine dell’anno. Per certi versi può essere positivo per chi li produce, ma per il sistema zootecnico italiano è assolutamente negativo. Essendo, poi, la Russia il maggior produttore di fertilizzanti al mondo, abbiamo un doppio timore: da un lato, che l’escalation legata alle sanzioni possa portare a ulteriori aumenti, perché già oggi i fertilizzanti che arrivano in Europa sono soggetti a una tassa; dall’altro, che Putin decida di bloccarne l’export verso la Ue. Ma i problemi non finiscono qui.

Che cosa dobbiamo aggiungere a questi gravi problemi?

Un quadro climatico generale, non solo in Europa, ma anche in Argentina e in Australia, che non è certo positivo, anzi è assolutamente anomalo, caratterizzato da prolungata assenza di precipitazioni. Siamo di fronte a un’ipotetica crisi globale che rischia di sconvolgere il futuro dell’agroalimentare.

Rischiamo gravi carenze negli approvvigionamenti?

Nel breve periodo no, ma dopo l’estate potenzialmente sì.

Su quali prodotti?

A maggior rischio sono i prodotti legati ai cereali e alla zootecnia.

Anche lo sciopero in questi giorni degli autotrasportatori crea qualche apprensione. La logistica è un nodo da sciogliere al più presto?

L’agroalimentare italiano, pur essendo il primo comparto dell’economia italiana, è molto frammentato e caratterizzato da una dispersione delle opportunità. È arrivato il momento di fare sistema. Con le risorse del Recovery fund, e non solo, ci vuole un progetto, una strategia tali per cui in Italia si possano avere dei centri di logistica avanzati e piattaforme a basso impatto ambientale per una movimentazione delle merci più su ferro che su gomma, ma soprattutto una gestione migliore di porti e aeroporti per poter veicolare verso i mercati internazionali le nostre produzioni nel minor tempo possibile e con il maggior vantaggio economico.

L’Europa a fine dicembre ha dato il via libera alla nuova Politica agricola comunitaria (Pac). Lei ha espresso qualche critica e perplessità. Che cosa non la convince?

Innanzitutto il fatto che si sia persa la sua dimensione economica. La Pac è nata 60 anni fa come politica economica, deve continuare a esserlo, non può essere snaturata, trasformandola in una politica ambientale e tanto meno di coesione. Per questi obiettivi ci sono fondi Ue ad hoc.

Questa trasformazione della Pac che problemi può creare?

Nel quadro generale del mercato unico rischia di creare una sperequazione fra produttori. Già oggi esistono diversi modelli produttivi e la Pac serviva appunto per ammortizzare le differenze esistenti in fatto di costo della vita, costo del lavoro, costi d’impresa fra i diversi paesi. Se la nuova Pac, che mette al centro l’equità di trattamento fra produttori e soprattutto il New Green Deal europeo, guarda innanzitutto al raggiungimento di determinati obiettivi ambientali senza tenere conto dell’aspetto economico, da qui a qualche anno avremo certamente un’Europa più vocata a produzioni sostenibili, ma non nelle quantità desiderate dai consumatori. Con l’aggravante che saremo costretti a comprare quello che manca da paesi in cui i temi della sostenibilità non sono neppure avvertiti. Manca, insomma, una visione capace di coniugare economia, ambiente e sociale.

L’Italia ci perde? E quanto?

Avrà un 15% in meno di risorse che saranno destinate ai paesi dell’area Visegrad. È un 15% in meno che a sua volta porterà sul territorio italiano a un sistema nuovo di regole e a una diversa allocazione fra imprese, andando a premiare quelle meno produttive. Tutto ciò rischia di danneggiare due risultati importanti che sono stati raggiunti negli ultimi anni.

Quali?

Da un lato, abbiamo accompagnato le imprese italiane a vendere di più sui mercati esteri: rispetto ai 27 miliardi di export di cinque anni fa ora siamo arrivati a 50 miliardi. Dall’altro, abbiamo ormai raggiunto quasi l’80% della capacità di produzione nazionale, e quindi eravamo prossimi all’autosufficienza alimentare. E la crisi, energetica e delle materie prime, di questi mesi dimostra sempre più quanto siano importanti la sovranità energetica e quella alimentare.

L’Europa è impegnata anche in una profonda transizione ecologica. Com’è il rapporto tra sostenibilità, rinnovabili e agricoltura? Quali sono sfide da affrontare e le opportunità da cogliere?

Le nuove frontiere dell’agricoltura saranno proprio il contributo alla transizione energetica e quello alla transizione ecologica.

In che modo?

È ovvio che nel futuro dell’agricoltura non mancherà mai la produzione di beni primari, ma dovremo sempre più dare il nostro contributo verso una produzione di energia pulita. Anzi, se oggi in Italia si parla di rinnovabili, lo si deve proprio a una felice intuizione qualche anno fa proprio di Confagricoltura. E in questa direzione vanno le priorità indicate nel Pnrr su fotovoltaico, biogas e biometano. Oggi noi vogliamo giocare un ruolo rilevante per il raggiungimento dei 60 Gw di rinnovabili. Chiediamo però uno snellimento delle norme, delle procedure e delle autorizzazioni burocratiche sulla realizzazione degli impianti, perché oggi anche per costruire il più basilare tetto fotovoltaico rischiamo di finire fuori tempo massimo.

E sulla transizione ecologica?

L’agricoltura è in grado di recitare un ruolo decisivo nell’assorbire la CO2 presente nell’atmosfera, perché due terzi della superficie italiana sono coperti da foreste e piantagioni agricole. Possiamo rendere l’aria più pulita e i terreni più fertili. Non a caso il nostro cavallo di battaglia sarà il “carbon farming”, che prevede la definizione e implementazione di schemi di remunerazione per le pratiche di sequestro del carbonio nel suolo: renderà gli agricoltori italiani protagonisti di questa nuova stagione della transizione ecologica.

Sulle etichette dei prodotti alimentari incombe l’incubo di Nutriscore. Di cosa si tratta? Perché fa paura all’agroalimentare Made in Italy?

Nutriscore è un sistema privato basato su un calcolo matematico, che provoca pesanti sperequazioni fra le industrie alimentari e soprattutto fra gli agricoltori e porterà a una standardizzazione del cibo, facendo perdere tipicità e biodiversità. Esistono tradizioni, storie e realtà alimentari ultracentenarie basate sul corretto consumo dei prodotti agricoli e agroalimentari. Bisogna uscire dalla logica dell’uso e dell’abuso. Anzi, credo che valutare oggi la dieta alimentare delle persone secondo un simile modello sia prematuro e anche eticamente sbagliato.

Perché?

Abbiamo ancora soglie importanti di popolazione mondiale che non hanno accesso al cibo, e noi ci permettiamo di dire che dei prodotti possono fare più o meno bene alla salute solo per il fatto che sono grassi oppure no?

Voi cosa proponete?

È molto più corretto il modello italiano, basato non sulla quantità, ma sulla porzione effettivamente consumata.

Dopo due anni di pandemia il settore agricolo è chiamato a ritrovare competitività? E come?

L’intervento più urgente è senza dubbio quello della promozione della digitalizzazione. L’agricoltura è chiamata a produrre di più e a farlo in maniera sostenibile e competitiva, specie in un mercato globale come quello attuale. Il digitale permetterà agli agricoltori di avere tecnologie e strumenti in grado di amplificare la capacità produttiva, di renderla più sostenibile grazie all’uso di sensori e di droni che ottimizzeranno i processi produttivi e di rendere ancor più trasparente la produzione, perché offrirà ai consumatori tutti i dati su dove, come e quando è stato realizzato quel prodotto.

(Marco Biscella)

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