Pochi sanno che l’impegno profuso dalla Croce Rossa Italiana durante la Guerra di Corea degli anni Cinquanta del Novecento fu determinante per l’ammissione dell’Italia all’Onu, contribuendo in modo decisivo al reinserimento della nazione nel complesso delle relazioni internazionali dopo la Seconda guerra mondiale.
La Guerra di Corea, del resto troppo poco studiata, non fu solo il primo grande scontro nell’Indo-Pacifico tra Usa e Urss dopo Yalta, ma fu anche il disvelamento drammatico dei dissidi tra l’Urss di Stalin e il nascente regime comunista cinese di Mao e Zhou Enlai.
Stalin non voleva in nessun modo un ampliamento del conflitto, che rischiava – sull’onda del declassamento del Giappone sconfitto – di favorire l’ascesa della Cina in un’area che aveva visto di già le truppe russe occupare la Manciuria e rafforzare il porto di Vladivostock proteso nel Pacifico. Stalin mirava a essere il dominus in acque che cinquant’anni prima circa avevano visto la Russia sconfitta dal Giappone nel 1905, Giappone passato in un lampo dal feudalesimo al capitalismo e che doveva ora essere annichilito per sempre a vantaggio dell’Urss e non della Cina maoista e degli Usa. Di lì la guerra che si concluse dopo un milione circa di morti e Seul che dovette essere più volte riconquistata dalle truppe Usa.
Per questo il viaggio di Putin a Pyongyang è simbolicamente significativo: la Russia afferma la valenza mondiale del conflitto russo-ucraino e pone in campo la sua natura di potenza planetaria. La risposta messa in campo è diretta a smentire l’infelice frase oltraggiosa del povero presidente Obama che – non pago di essere affascinato da Morsi in Egitto – definì la Russia una potenza secondaria. Le conseguenze si sono viste: l’orso russo reagisce sempre al declassamento temuto o annunciato con l’aggressione preventiva. Ora a ciò aggiunge l’accordo militare con un produttore di armi atomiche e non tra i più pericolosi al mondo: la Nord Corea.
Forse è ora di riflettere sulla guerra di Corea: su come terminò in primo luogo, ossia tirando una riga sul terreno che scontentava tutti, ma grazie a cui si finiva di morire.
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