Dici Ucraina, e pensi che parlino ucraino gli uni, russo gli altri – e i media aggiungono che i primi sono i buoni, i secondi, ma forse solo i capi, sono i cattivi. Gli uni guardano a occidente, gli altri bramerebbero il tallone di Vladimir Vladimirovič Putin.

Ucraina, terra nei secoli dominata da altri. Polacchi e lituani, austriaci e russi, cosacchi e tatári… un po’ avversari, un po’ compagnoni, come svelano le parole: i signori della guerra cosacchi si chiamavano atamani, che sembra parola turca o tatára, ma è dal polacco hetman – e questo viene dal tedesco Hauptmann “capitáno”… Un intreccio di lingue, potenze e prepotenze, abituate a passare sopra ai contadini ruteni.



Rutenia, infatti, è il nome storico di gran parte del territorio fra la Polonia e la Russia. C’era la Rutenia rubra e quella nigra. Più o meno, è la fascia di terra che scende dalla Lituania e prende l’odierna Bielorussia e parte dell’Ucraina occidentale. Sembra che Ukraïna sia il nome che i Cosacchi davano alle loro terre (kraïna è “paese, marca”), che erano a oriente del Nipro e lungo il Don. Più a sud, lungo il Mar Nero, c’era il khanato dei Tatári, che solo Caterina, sul finire del Settecento, vinse e conquistò alla Rossijskaja Imperija. E dentro c’era la Crimea, che da allora fu russa, ma una volta era abitata per lo più da tatári (di una lingua del gruppo turco), insieme a greci e persino italiani – gli italiani di Crimea ci sono ancora oggi: erano un paio di migliaia ai tempi di Stalin, che pensò bene di deportarli prima dell’ultima guerra.



Passato Baffone, arrivò Nikita Sergeevič Chruščëv, che pose la Crimea dentro alla repubblica sovietica di Ucraina. Anni dopo, alcune centinaia di italiani deportati riuscirono a rientrare in Crimea; di recente, dopo la presa operata dai russi, nel 2014, gli italiani sono stati riconosciuti come minoranza etnica della Crimea.

Tra l’altro, Chruščëv era ucraino, ma, soprattutto, era comunista e fece del suo meglio per stabilire l’ordine sovietico dalle sue parti, dove, negli anni Trenta, a milioni furono lasciati morire di fame nelle terre ucraine (holodomor è il nome dello “sterminio per fame”). Molti russi furono poi stanziati nelle regioni spopolate, soprattutto nell’Ucraina orientale.



Ma la presenza russa è antica: in quelle terre, da sempre convivono (o si sopportano) popoli di lingue diverse. Le città erano poi intrecci di culture, tradizioni e business molto importanti. Per tutte, Odessa. Fondata da Caterina, sul Mar Nero, in terre appena sottratte all’impero ottomano, fu centro cosmopolita, caratterizzato da una élite composita: nobili commercianti intellettuali avventurieri francesi, russi, greci, italiani, tedeschi… perché Caterina (di Stettino, nata Sofia Federica Augusta del casato di Anhalt-Zerbst) aveva chiamato tedeschi a stabilirsi nelle regioni di confine a sud e a est dell’impero – nel giro di pochi decenni ne arrivarono centinaia di migliaia; formarono le comunità tedesche di Odessa, del Caucaso, del Volga…

Passato Napoleone, la Russia – anche con il contributo dei tedeschi – dominò saldamente le terre che davano sul Mar Nero e confinavano con gli altri imperi: l’Austria e la Sublime Porta. Ma non aveva inglobato ancora le terre occidentali dell’Ucraina odierna.

Qui, ancor oggi, vi è traccia di un coacervo di culture, tradizioni e lingue che per secoli assistettero e resistettero a conflitti politici, pulizie etniche, pogromy, eccidi in nome di varie ideologie. Uno scenario complesso; per lo più è ignoto al pubblico italiano.

Galizia, Volinia, Podolia, Bucovina: di questi nomi, le cronache della guerra riportano per lo più solo il primo. Galizia (Halyč) è regione storica, con capitale Leopoli, la “città leonina”, che in ucraino è L’viv, in russo è L’vov, in polacco è Lwów. E in tedesco è Lemberg: fondata da polacchi, fu polacca (seconda solo a Varsavia) fino al tardo Settecento, quando – soppressa l’indipendenza polacca – passò all’Austria. Sotto gli Asburgo, entrò, insieme a Cracovia e a Przemysł, nel regno di Galizia e Lodomiria, che comprendeva anche parte della Volinia, con la città di Tarnopol (Ternopil in ucraino) e, più a sud, la Podolia.

I territori tornarono alla Polonia dopo la Prima guerra mondiale e vi restarono fino al 1945, quando i sovietici li presero e li misero nella repubblica d’Ucraina, dentro all’Unione Sovietica. I polacchi, cacciati, furono reinsediati in Polonia, nelle terre lasciate dai tedeschi. Sorte analoga toccò ai Rossini e ai Lemchi. Questi sono popoli di lingua simile all’ucraino, che abitavano nelle regioni dei Carpazi polacchi, slovacchi e ucraini. Vivevano soprattutto nella regione Transcarpatica, che fu nel regno d’Ungheria, pure sotto la corona asburgica, fino agli anni Venti del Novecento. Poi toccò alla Cecoslovacchia e finì nell’Ucraina sovietica dopo il 1945. Qui vi è la città di Užgorod, che i magiari chiamano Ungvár e i tedeschi Ungwar.

Dopo l’ultima guerra mondiale, da quelle parti intere popolazioni, lingue e culture furono sradicate e cacciate. Molti emigrarono in America e raggiunsero coloro che avevano lasciato l’Europa centro-orientale prima delle guerre mondiali. Forse il più famoso dei rossini è stato Andy Warhol, i cui genitori erano originari della Transcarpazia slovacca. Warhol mantenne le radici rossine soprattutto nella cultura e nella religiosità cattolica di rito bizantino.

In generale, a caratterizzare le comunità slave dell’Ucraina occidentale è soprattutto l’appartenenza alla Chiesa cattolica di rito orientale – mentre il resto degli slavi ucraini (molti anche nella Bucovina) è ortodosso, come gran parte della minoranza romena d’Ucraina. Questi ultimi vivono in Bucovina, una regione che un tempo, al pari della Galizia, era dominata dall’Austria. La capitale, ai tempi degli Asburgo, si chiamava Czernowitz (in ucraino è Černivci, in romeno Cernăuţi); dopo la Grande Guerra, e fino al 1940, la parte della Bucovina che era stata sotto l’Austria entrò nel Regno di Romania. Poi toccò all’Ucraina sovietica, cui recò un’importante minoranza linguistica romena.

Merita particolare attenzione una componente che fu decisiva per lo sviluppo culturale e la fortuna economica delle città dell’Ucraina occidentale e della Bucovina: erano ebrei circa un terzo degli abitanti di Odessa, di Leopoli, Tarnopol, Czernowitz e altre città. Nella vita quotidiana usavano parlare e scrivere in yiddish, lingua basata su dialetti franconi lorenesi. La norma della lingua yiddish fu stabilita proprio nella Conferenza di Czernowitz del 1908, cui parteciparono eruditi e letterati ashkenaziti (il mondo ebraico mitteleuropeo). La Bucovina era diventata il cuore dell’intellettualità di lingua yiddish.

E nell’Ucraina allora russa non dimentichiamo il grande contributo degli intellettuali ebrei alla vita culturale e alle arti: basti dire che a Kyïv (la russa Kiev) vi era nato Wladimir Horowitz; David Ojstrach e Nathan Milstein videro la luce a Odessa. Molti altri erano nati in America, da genitori ebrei sfuggiti ai pogromy, così frequenti presso gli europei antisemiti. È poi noto che gran parte dei fondatori di Israele venivano dai territori fra Vilnius (la “Gerusalemme del Baltico”) e Odessa, poi giù fino a Salonicco, la Yerushalayim de los Balkanes (in ladino sefardita).

A Brest (oggi in Bielorussia) era nato Menachem Begin e Golda Meir vide la luce a Kyïv. A Doneck – nell’Ucraina orientale, ora in mano ai russi – è nato Anatolij, poi Nathan Sharansky, incarcerato sotto il potere sovietico e poi emigrato in Israele, dove è diventato un leader politico.

Leopoli era la città natale di Simon Wiesenthal, il cacciatore dei criminali nazisti. Nella sua autobiografia, Wiesenthal narra che si era iscritto alla facoltà di architettura nell’ateneo della sua città, ma l’accesso all’università gli fu impedito fisicamente da gruppi organizzati di studenti polacchi antisemiti. Si era negli anni Venti del Novecento. Così egli si trasferì a Vienna. Come lui, molti intellettuali e studiosi lasciarono quelle comunità plurilingui e pluriculturali, vivaci e tormentate.

Sono storie di tempi lontani. Bisogna però tenerne desta la memoria per comprendere il dramma di quelle terre, che continuano ad assistere a morte e distruzione, spesso in nome di Dio e di una presupposta superiorità culturale.

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