Ue e Polonia sarebbero sul punto di trovare un compromesso: Bruxelles è pronta a sbloccare a Varsavia 36 miliardi di aiuti-Covid previsti dal Recovery Fund a fronte di non ancora specificati “sviluppi” nella lunga querelle che contrappone Polonia e Unione per presunte violazioni sul terreno dei diritti politici e civili (indipendenza della magistratura).
Lo ha annunciato una fonte del tutto attendibile: il vicepresidente esecutivo dell’Ue, il lettone Valdis Dombrovskis. Varsavia sta dunque incassando tutta e subito la benemerenza di essere schierata sulla linea massimalista verso la Russia, che ha invaso l’Ucraina ai confini esterni di Ue e Nato, aprendoli peraltro al grosso dei profughi di Kiev.
Per l’Ungheria, invece, è ancora tempo di purgatorio, ma non è detta l’ultima parola. La “riabilitazione” di Budapest – in odore di democratura più della “gemella diversa” polacca – è ancora legata all’esito del braccio di ferro sulle sanzioni aggiuntive alla Russia. Viktor Orban mantiene il veto (accusato di “putinismo”) sull’embargo totale prospettato dall’Europa per le forniture di petrolio da Mosca. Così facendo frena oggettivamente il contenzioso in corso con Bruxelles, che ha già prospettati lo stop corrente agli aiuti Recovery sempre per via dei dubbi Ue sull’effettivo rispetto di stato di diritto e diritti civili in Ungheria, a partire dal settore dell’informazione. Alla fine la scelta sarà del Premier: che non sarebbe sorprendente se tenesse aperte entrambe le scommesse, senza per il momento “chiamare” alcuna delle due all’incasso.
La questione cambierebbe poco. Al di là dei veli molto sottili del formalismo istituzionale e burocratico, due Paesi-membri quasi all’indice dell’Unione su questioni politiche sostanziali e delicate, verrebbero “amnistiati” in corsa per meriti d’appartenenza: peraltro dichiarati di fatto da un soggetto esterno all’Ue, come gli Usa.
Governi e media della “core Europe” si erano violentemente scagliati contro la maggioranza conservatrice polacca sia contro la quasi-autocrazia di Budapest, appoggiando la linea dura della Commissione: anche in chiave di resistenza all’intera “area di Visegrad”, i Paesi della “nuova Europa” dell’Est protagonisti di (presunte) derive autoritarie. Del colpo di spugna in arrivo non è difficile comprendere le ragioni: la Polonia è diventata la retrovia Nato della guerra russo-ucraina: oltreché, naturalmente, il primo e più importante rifugio di milioni di profughi ucraini. È in Polonia che è atterrato il Presidente Usa Joe Biden durante la sua prima visita “al fronte”: è dal territorio polacco che ha lanciato verso Vladimir Putin le invettive più diplomaticamente sanguinose. Erano polacchi i caccia che la Nato aveva ipotizzato di poter fornire a Kiev. È Morawiecki che, ancora pochi giorni fa, rilasciava interviste centrate sul mantra “guerra alla Russia fino alla vittoria definitiva”. Lo stesso delle repubbliche baltiche associate all’Ue: che infatti si sono subito lamentate del disgelo tentato nel fine settimana da Germania e Francia con Mosca.
Ci sarebbe poco da stupirsi se al cessate il fuoco in Ucraina corrispondesse un’escalation conflittuale dentro l’Ue, in sovrapposizione a quella interna alla Nato sull’ingresso di Finlandia e Svezia.
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