Nonostante gli strascichi della pandemia, nonostante la guerra in Ucraina e nonostante la crisi del mercato finanziario internazionale è cominciato l’oratorio estivo.

È condotto da un giovane, brillante sacerdote, da un gruppo di giovani (più o meno) mamme piene di iniziative e da un gruppo di volenterosi liceali sottratti alla “svacco” post-scolastico dal desiderio di “servire Gesù” nei piccoli, che comunque è meglio di non combinare una “mazza” con l’illusione di essere liberi.



Il vecchio parroco gioca in panchina, ma ben presto deve mettere anche lui i calzoncini ed entrare in campo perché il giovane prete brilla anche da altre parti. Le mamme chiedono l’aiuto di un vecchio saggio e ai liceali non dispiace di mettermi alla prova.

E i bambini? Calma, ne parleremo tra poco.

Martedì si va in Duomo, a piedi. Lì il vecchio parroco, ripresosi dalla camminata, forte degli insegnamenti del nonno, appartenente ad una antica famiglia milanese doc, introduce brevemente alla visita della cattedrale. Lo fa, naturalmente, in italiano.



Il fatto è, però, che nel gruppo sono presenti anche tre bambini ucraini di 7 anni, due bambine e un bambino, che sono stati accolti da tempo nella comunità.

Così, il vecchio parroco, ex insegnante di lingue in un’accademia diplomatica sovietica, si rivolge ai piccoli ospiti nella loro lingua.

Quando comincia a parlare i piccoli ucraini sorridono contenti, gli altri si dividono tra i sorpresi e i divertiti, che ridono chiaramente nel vedere ma soprattutto nel sentire il vecchio parroco che parla come Putin, quando non lo traducono.

Notando l’ilarità generale (mamme comprese, i liceali discutono sulla bontà della pronuncia), dice ai piccoli italiani che c’è poco da ridere e che in fondo loro non sanno neanche dire grazie in ucraino.



Dopo un breve silenzio, il solito piccolo secchione della III B si fa avanti e dice: “In ucraino grazie si dice spassiba”. Il vecchio parroco, non tanto per punire la vanagloria, quanto per ristabilire la verità fa presente che in ucraino non si dice spassiba, ma diakujem.

A questo punto interviene anche il piccolo ucraino, forse anche lui della III B, che si permette di precisare che in ucraino si potrebbe anche dire spassiby. Finalmente la disputa sembrerebbe finita. Invece le due bambine chiamano da parte il vecchio parroco e gli sussurrano all’orecchio, quasi in segreto: “Don, ha ragione lei, in ucraino grazie si dice diakujem, non spassiby, ma sa, quello lì è un filorusso!”.

Questo semplice episodio di vita vissuta, che può anche far sorridere, a ben pensarci, da un’idea di quel drammatico impegno di riconciliazione che sarà necessario dopo la guerra. Cercasi volontari per un prossimo oratorio estivo a Kiev e dintorni.

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