La “Dichiarazione dei capi di Stato o di governo, riuniti a Versailles, sull’aggressione militare russa nei confronti dell’Ucraina”, del 10 marzo 2022, è sconcertante. L’ obiettivo oggi dovrebbe essere quello di un immediato cessate il fuoco e della prosecuzione dei negoziati. Negoziati possibilmente affidati a un interlocutore terzo, come si insegna in tutte le scuole diplomatiche che ancora esistono al mondo.



A questo proposito ricordo che in Russia, a Mosca, pochi giorni orsono gli allievi dell’Istituto nazionale di relazioni internazionali hanno pubblicato un manifesto di critica profonda alla guerra etnica putiniana, che costerà agli estensori la messa al bando dalla vita civile e la distruzione delle loro carriere. Pochissima l’eco sulla stampa (si distingue La Stampa, torinese, con una articolo splendido di Stefanini).



Quel manifesto è un esempio preclaro della grande cultura liberale russa del dissenso, che ancora rampolla e resiste anche sotto il regime neoetnico autoritario putiniano. I capi di Stato europei soffocano ogni spazio di manovra diplomatica iniziando il loro manifesto testé citato con queste sconcertanti dichiarazioni, che sono agitazione e propaganda ma non politica  e tanto meno esercizio di diplomazia: “La responsabilità di questa guerra di aggressione ricade interamente sulla Russia e sulla Bielorussia, sua complice, e i responsabili saranno chiamati a rispondere dei loro crimini, anche per gli attacchi indiscriminati contro civili e beni di carattere civile. A tal proposito accogliamo con favore la decisione del procuratore della Corte penale internazionale di avviare un’indagine”.



Forse era meglio attendere prima di gridare a gran voce queste intenzioni; necessarie, per carità, ma che richiedono di essere preparate con un incessante lavorio diplomatico e non enunciate con gran “clangor di buccine”, per citare il grande Guido Gozzano. Dichiarazioni che altro non fanno che allontanare la soluzione della tragedia.

La tragedia, infatti, è in corso ed è la conseguenza della trasformazione del sistema di potere russo che sta tracimando in un regime etno-autoritario, dove il punto archetipale non è più nei servizi segreti e nelle loro macchine disinformative, ma in un esercito trasformato nel profondo e dominato da un comitato di affari che sostiene truppe mercenarie. Un complesso di dominio autoritario di tipo “grande-russo” che punta alla distruzione delle radici europee della Russia. Le radici che, storicamente, come ci insegnava Vittorio Strada, erano la forma politico-culturale che fungeva da ponte tra l’Europa e lo Heartland e quindi formava l’Eurasia. Quel delicatissimo equilibrio in costante mutazione tra le pressioni scandinave e continentali europee e quelle asiatiche e centro asiatiche, come la millenaria storia dello zarismo prima e poi quella breve dello stalinismo dimostrano.

L’impero territoriale a direzione sovietico-autoritaria dell’economia e della politica, era stato scosso da Gorbaciov e dai suoi coraggiosi tentativi di riforma interna. Eltsin e la finanza liberista anglosassone distrussero quel tentativo, così da depredare la Russia e cacciarla nell’angolo della discriminazione internazionale. La Cina entrava nel Wto nel 2001, mentre la Russia la seguiva solo nel 2011. Non paghe di ciò, le élites del capitalismo estrattivo nordamericano ed europeo la sottoposero alla minaccia dell’isolamento militare ed economico, non creando gli Stati cuscinetto attorno ai confini russi e alimentando così il  revanscismo di Stati e popolazioni un tempo dominati dall’imperialismo grande-russo sovietico.

La lezione di riscossa democratica e insieme di accompagnamento di Giovanni Paolo II, il quale appoggiò la Polonia che lottava per la libertà senza umiliarne le radici nazionali, è stata dispersa.

Ora una Ue senza esercito, senza economia di mercato, ma eterodiretta in forma assai simile a quella sovietica di un tempo, con le sanzioni ricaccia di fatto la Russia nel buio dell’isolamento sanguinoso dell’etnicità, incoraggiando, ripeto, con le sanzioni, i disegni di Putin, anziché opporsi a essi con un messaggio democratico, che deve avere come punto archetipale l’appoggio al dissenso russo e il sostegno politico, e quindi diplomatico, al popolo ucraino che lotta militarmente contro l’invasore. Cosa ben diversa dalla propaganda in corso.

Ciò che sta svolgendosi sotto i nostri occhi ricorda l’ignavia e l’assenza di pensiero strategico che colpì la Cdu tedesca e anche il partito liberale quando si udì, al congresso della Cdu del 15 gennaio 1991, Helmut Kohl annunciare: “La Germania riconoscerà Slovenia e Croazia il 15 gennaio”. I delegati al congresso dei cristiano-democratici, a Dresda, si alzarono in piedi per applaudire l’annuncio. Anche Hans Dietrich Genscher si unì al cancelliere, nel dichiarare che quella tormentata decisione, a cui giunsero anche – purtroppo – i ministri della Cee, era “un grande successo per la politica tedesca e per quella europea”.

Anche allora ci si sostituì ai partiti e alle associazioni della società civile. Gridar forte non è ciò che si attende dai capi di Stato: essi  devono esprimere saggezza e lungimiranza ed espletare innanzitutto le possibilità di dialogo per un cessate il fuoco che protegga i civili e difenda con il lavorio diplomatico le vittime della guerra etnica putiniana.

Invece, dopo le giuste dichiarazioni contro l’attacco proditorio russo all’integrità territoriale dell’Ucraina, dobbiamo leggere le parole seguenti: “Siamo determinati ad aumentare in misura ancora maggiore la nostra pressione sulla Russia e sulla Bielorussia. Abbiamo adottato sanzioni significative e rimaniamo pronti a procedere rapidamente con ulteriori sanzioni”.

Forse era meglio gridare alto e forte questa strategia dopo e non prima dell’espletarsi dei negoziati. Il pericolo di dar fuoco alla prateria, infatti, è quanto mai reale e presente. Le guerre balcaniche non hanno insegnato nulla. La speranza è che i negoziatori israeliani, turchi e socialdemocratici tedeschi, Schröder in testa, negozino e diano a Putin una via di uscita e non lo pongano solo con le spalle al muro. La condanna morale e politica deve unirsi e non opporsi – come si fa con le sanzioni – all’azione diplomatica.

La guerra sul terreno prepari la negoziazione: questa è l’unica via di soluzione. Bisogna perseguirla, se non vogliamo che la prateria degli slavi del sud si riaccenda. La minaccia nucleare è onnipresente: non va mai dimenticata ed è la condizione in cui ci si è costretti a muovere in un campo di relazioni di potenza purtroppo costruito nel modo peggiore che si potesse immaginare. La tragedia dei popoli è stata creata dagli errori delle classi dominanti europee e nordamericane. Solo la saggezza e la paziente opera dei costruttori intelligenti di pace può farla finire, quella tremenda sofferenza, di cui oggi la tragedia si è rivestita.

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