La transizione verde (Green Deal) fa ormai le sue vittime anche tra chi l’ha sostenuta e votata. Il regolamento sul ripristino degli ambienti naturali (Nature Restoration Law) ha creato dissenso nel Ppe e nei giorni scorsi Manfred Weber è stato costretto a ritirare l’appoggio al provvedimento. Ma è solo uno dei tanti segnali di malessere che serpeggiano nella principale forza che sostiene, insieme ai socialisti e ai liberali, la Commissione von der Leyen.
Questa legislatura ha perseguito di fatto la decrescita felice di marca grillina, osserva Alessandro Panza, europarlamentare della Lega-gruppo ID a Bruxelles e responsabile Lega per le politiche delle aree montane. Tra un anno questa Commissione non ci sarà più, gli equilibri probabilmente cambieranno. Proprio per questo – spiega Panza – i commissari hanno impresso al Green Deal e alla sua “logica sovietica”, così la definisce l’eurodeputato, una ulteriore spinta.
Perché il Ppe si è ritirato dal negoziato sul Nature Restoration Law? Non siamo davanti ad una proposta di legge nello spirito del Green Deal, dai popolari sempre sostenuto?
Certo. Ma il Ppe appare sempre più come un orologio rotto che ogni tanto segna l’ora giusta e si ricorda di essere un partito di centrodestra. Il vero problema è che i nodi della transizione ecologica stanno arrivando al pettine.
Ci spieghi bene.
Fino a due anni fa i popolari, insieme ai socialisti, erano i grandi sponsor della rivoluzione verde e delle sue magnifiche sorti, ma adesso sta diventando sempre più chiaro che il conto economico e sociale della transizione green sarà salatissimo. Per inseguire la chimera di Timmermans, in buona parte dell’Europa imprese e famiglie si impoveriscono.
Gli obiettivi del regolamento in questione sono come sempre perentori: ripristino del 20% dei territori terrestri e marittimi degli Stati membri entro il 2030 e degli ecosistemi degradati entro il 2050.
Perentori, ma anche irrealistici e dannosi. Con l’approvazione di quel regolamento il 98% del Mediterraneo diventerebbe area marina protetta: niente più pesca, niente attività di sondaggio ed estrazione di idrocarburi. La rete Natura 2000 per la conservazione della biodiversità ha già reso molte zone delle Alpi invivibili, spopolandole. Alcune lobbies importanti, soprattutto nel Nord Europa, non ci stanno più. E premono per far desistere il Ppe dal portare avanti l’agenda.
In Olanda gli agricoltori di Farmers Defence Force (Fdf) e Samen voor Nederland (Insieme per i Paesi Bassi) hanno protestato per mesi, qui non se ne è saputo quasi nulla. Cosa può dirci in proposito?
L’Unione Europea ha preteso di sottoporre i grandi allevamenti intensivi alla riduzione delle emissioni, considerandoli inquinanti e troppo vicini ad aree naturali protette. Le soluzioni proposte sono folli e hanno suscitato la fortissima opposizione degli agricoltori.
Qual è il punto?
Non si possono considerare intensivi e inquinanti gli allevamenti europei. Lo sono in Sud e Nordamerica, in Cina, dove ci sono aziende di 6-10mila capi, non in Europa, dove parliamo di aziende grandi con 2mila capi, normalmente di dimensioni contenute nei 5-600 capi. Il regolamento intende sottoporre anche gli allevamenti al meccanismo degli Ets – paragonandoli di fatto ai cementifici e alle acciaierie – e ad una riduzione del 30% della capacità produttiva, che vuol dire abbattimento dei capi.
E finora l’allineamento del Ppe ai dogmi della transizione è stato totale?
Sì, non c’è dubbio. Non dimentichiamo che Ursula von der Leyen è presidente della Commissione per 9 voti di scarto. Timmermans non è arrivato ieri, faceva già parte della Commissione Juncker e il suo contributo alla distruzione dell’economia europea era già noto. Poi, da vicepresidente esecutivo, ci ha messo il carico da novanta.
Alla luce di questo, quelle del Ppe sono manovre tattiche, sapendo che la grande coalizione con il Pse difficilmente ci sarà ancora, oppure sono un ripensamento che riguarda l’ideologia green e la sua attuazione?
Non possiamo saperlo. Weber dà l’impressione di essere isolato e di non avere in mano il gruppo come un tempo. Nel voto sulla due diligence delle imprese una serie di emendamenti non sono passati perché i parlamentari non si sono attenuti alle indicazioni di voto. Succede di frequente. È vero, entriamo in un periodo di tatticismi. Ma per capire come sarà il prossimo parlamento dovremo attendere il responso delle urne.
Sappiamo qual è la forza di certe agende. Questa fase pre-elettorale, con i suoi tatticismi, rallenterà il Green Deal?
Al contrario: proprio perché c’è la convinzione che la prossima Commissione avrà equilibri diversi, von der Leyen e Timmermans stanno procedendo a ritmo forsennato, in preda a un’evidente bulimia legislativa.
Da dove viene il pericolo maggiore?
C’è l’imbarazzo della scelta, ma direi la direttiva sul packaging. Si vuole imporre l’uniformità del confezionamento per qualsiasi prodotto in qualsiasi parte d’Europa. Quindi addio alla differenziazione dei prodotti, agli investimenti sul design, all’eccellenza sul riciclo che vede l’Italia in testa alla classifica europea degli obiettivi fissati dall’Europa stessa. Che ha messo il riuso in competizione col riciclo.
E perché questa scelta?
Dato che sul riciclo la Germania non è riuscita ad adeguarsi, si vuol cambiare paradigma. Per l’Italia vuol dire buttare alle ortiche trent’anni di investimenti, filiere consolidate che generano Pil e occupano decine di migliaia di lavoratori.
Quale sarebbe la vostra proposta?
Quella suggerita dal buon senso: far coesistere le soluzioni, armonizzandole. Invece si preferisce una logica sovietica. Al packaging va aggiunto il tema della casa, delle emissioni e degli Ets, dei materiali critici.
L’Ue ha imboccato una direzione precisa. Lei come la definirebbe?
È quella della “decrescita felice” suggerita da Grillo. Ma è una decrescita tutt’altro che “felice”: rischia di essere drammatica. Ci hanno fatto credere che la transizione green sarebbe stata bella, gratuita e felice per tutti. Non è vero: ha costi sociali gravi che milioni di persone sono e saranno costrette a pagare.
(Federico Ferraù)
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