La decisione assunta il 5 maggio dai vertici dell’Unione Europea di sospendere la ratifica del Comprehensive Agreement on Investment (Cai), il trattato con cui Ue e Repubblica Popolare Cinese intendevano definire un framework comune per gli investimenti, arriva dopo un progressivo inasprimento delle relazioni fra i due partner, che ha seguito le sanzioni contro la Cina per le violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione uigura dello Xinjiang e la risposta cinese di prendere misure contro cinque parlamentari europei e quattro istituzioni, fra le quali spicca la Sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo.
Un brusco arresto che avviene dopo sette anni di trattative ininterrotte e che rappresenta per l’Ue un ritorno al 1989, l’ultima volta, cioè, in cui furono prese misure contro la Cina come risposta alla repressione di piazza Tiananmen.
A riguardo la dichiarazione di Valdis Dombrovskis risulta particolarmente significativa: “Abbiamo, per il momento, sospeso alcuni sforzi di sensibilizzazione politica da parte della Commissione, perché è chiaro che nella situazione attuale, dopo le sanzioni Ue contro la Cina e le contro-sanzioni cinesi, anche nei confronti di membri del Parlamento europeo, l’ambiente non è favorevole alla ratifica dell’accordo”. Naturalmente, se quel “per il momento” si può prestare a diverse interpretazioni, risulta evidente la volontà di porre il Cai in un quadro più vasto, all’interno del quale riconsiderare in modo complessivo i rapporti fra Bruxelles e Pechino.
Un cambiamento che rappresenta un problema soprattutto per la Germania, che ora si trova fra le mani un dossier di difficile gestione. Il Cai ha rappresentato il successo più significativo dei sei mesi della presidenza tedesca del Consiglio europeo. La Cina è il più importante mercato per le imprese tedesche e la gran parte dei 120 miliardi di euro di investimenti cinesi verso l’Ue registrati negli ultimi anni erano destinati proprio alla Germania.
A fronte di questo rapporto consolidato va inquadrata la postura dell’Unione Europea, che ha oscillato fra la definizione di Josep Borrell, che ha descritto la Cina come “un nuovo impero e un rivale sistemico”, e l’atteggiamento tedesco, che ha sempre visto in Pechino un partner strategico a cui è difficile, se non impossibile, rinunciare. Un quadro di ambiguità che probabilmente è destinato a trovare una soluzione che cambierà l’assetto geo-economico dei prossimi anni.
Se, da un lato, sono molti gli analisti che vedono nella Cina un mercato indispensabile per le imprese europee, due questioni rimangono tuttavia sul tavolo, ovvero la logica economica che ha guidato l’Ue e l’eredità politica di Angela Merkel. Le asimmetrie strutturali del rapporto fra le economie europee e quella cinese non vengono superate dal Cai e sono il frutto delle esigenze di un’economia export lead di trovare a qualsiasi costo un mercato di sbocco. Un accordo che preclude agli europei di investire nelle comunicazioni cinesi, mentre alla Cina viene data mano libera, che nel contempo non fa chiarezza sul ricorso al lavoro forzato e che, in virtù degli accordi di Parigi, permette a Pechino di continuare fino al 2030 ad aumentare le emissioni di anidride carbonica.
In definitiva, un accordo basato sulla semplice logica che più investimenti europei affluiranno in Cina e più i cinesi potranno comprare i prodotti europei. Una visione nel complesso miope che ignora, o fa finta di ignorare, le conseguenze sociali e politiche dell’accesa competizione geopolitica e geo-economica che ha in Pechino il suo attore principale.
A questo quadro va aggiunto il declino di Angela Merkel, che deve fare i conti con il fatto che gli Stati Uniti sembrano essere tornati di moda fra i dirigenti della Cdu e che l’opposizione interna, Verdi su tutti, si mostra molto meno flessibile nei confronti della Cina sulla questione dei diritti umani. La vicenda del 5G complica ulteriormente il quadro e il governo tedesco sembra essersi accorto finalmente che considerare Huawei un operatore come gli altri vuol dire porre un problema alla sicurezza nazionale.
In definitiva, la Germania sembra dover fare i conti con una logica economica in cui privatizzazioni, austerity e primato alle esportazioni l’hanno portata ad avvicinarsi in modo troppo disinvolto a Pechino. Un brusco risveglio per chi ha sottostimato le conseguenze della rivalità fra Usa e Cina e il decoupling fra le due economie.
Mentre più di mille grandi imprese americane hanno abbandonato la Cina, l’Ue è chiamata a fare una scelta di campo e a quanto pare lo dovrà fare in virtù del fatto che la sua autonomia in campo geopolitico ed economico è stata indebolita dall’egoismo nazionale e da una logica puramente economicistica.
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