Il refrain della sostenibilità è diventato tanto frequente e tanto usuale ai nostri orecchi che ormai non sembra ci sia più alcun bisogno di farci domande in merito.

È diventata come una parola eterna, nella sua immobilità e staticità, come una sintesi di tutto quanto sia auspicabile per le odierne società globali, sintesi di bene e di male, a seconda che si tratti di qualcosa di sostenibile o, viceversa, di qualcosa che ne rappresenta il contrario.



Volendo comprenderla sul piano della politica e delle politiche, si può dire che essa ha avuto una straordinaria capacità di penetrazione nei disegni che caratterizzano le scelte dei diversi livelli di governo. L’Unione Europea rappresenta, in questo senso, un esempio di particolare interesse.

Se si esamina infatti il percorso della sostenibilità, dalla Commissione Onu del 1987 (la arcinota Commissione Brundtland con la sua pluri-ripetuta definizione di sostenibilità) ai giorni nostri, si possono identificare alcuni passaggi chiave che documentano come l’Unione si è progressivamente ma anche sapientemente adattata alla prospettiva del nuovo modello di sviluppo fino ad arrivare, sotto la guida della Commissione von der Leyen, a fare della sostenibilità il pilastro di tutte le sue azioni, comprese quelle che sono state poste in essere per far fronte ai disastri della pandemia.



Il primo step, ancora embrionale, è stato il cosiddetto Atto Unico, nel 1986, a ridosso dell’intervento – l’anno successivo – della definizione di sostenibilità; con questa modifica ai trattati istitutivi – la prima dopo tre decenni – l’Europa ha potenziato i suoi interventi in materia ambientale, pur calmierati da uno dei primi richiami costituzionalmente sanciti al principio di sussidiarietà. Nel 1992, con il Trattato di Maastricht, la parola entra a pieno titolo nel  novero dei valori economici da tutelare cui si affiancherà, con il Trattato di Amsterdam, nel 1997, la creazione della nuova Europa sociale, ancora un volta ricorrendo anche al principio di sussidiarietà.



La triade ambiente-economia-stato sociale, che sono i tre pilastri della sostenibilità, viene dunque assunta nei massimi atti normativi comunitari e l’Europa è pronta a trasferire tali valori nella proprie politiche. Nel 2005, il quinto programma quadro in materia ambientale viene denominato Toward Sustainability e segna le linee di sviluppo del percorso che procederà, step by step, fino al 2019, anno del New Green Deal, sulla scorta di quanto era avvenuto al Consiglio Europeo di Goteborg, nel 2001. Sempre in quell’anno, a Goteborg, si era deciso di adottare la prima strategia speciale sul tema (rivista nel 2005 e ancora nel 2009).

Infine, nel 2010, la strategia generale decennale, meglio nota come Strategia di Lisbona, definisce come linea di sviluppo di tutta l’azione europea la sostenibilità, mentre la Commissione Junker, entrata in funzione nel 2014 (cioè un anno prima della emanazione dei goals del settembre 2015) mette in relazione nei suoi documenti i goals con le diverse politiche europee creando un quadro unitario.

Creare un quadro unitario a partire da 15 diversi “scopi” non è però una operazione da poco per amministrazioni pubbliche abituate a ragionare per competenze. Resta pertanto, al di là delle intenzioni, una certa frammentazione che si rispecchia – ad esempio – nei rapporti annuali di Eurostat dal titolo Monitoring Reports on Sustainability. In questi documenti vengono identificati, per ogni comparto, una serie di indicatori che dovrebbero far comprendere fin dove la sostenibilità è stata attuata e quanto vi è ancora da fare.

Insomma: parlare di sostenibilità è molto gratificante, se però resta chiaro che parlarne in generale può anche essere ingannevole. Meglio stare al caso per caso, nella consapevolezza della precarietà dei risultati che si raggiungono e della necessità di non farne una ideologia bonne à tout faire.

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