“Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei crede che faccia il pianista in un bordello”. Questo era il titolo di un libro scritto da Jacques Séguéla, il famoso pubblicitario francese, noto anche per le sua campagne a favore di François Mitterrand. Uscì nel 1979 in Italia, quando la professione di pubblicitario da un lato era invidiata, ma dall’altro risentiva ancora dello stigma cucitole addosso da Vance Packard, con il suo famosissimo bestseller I persuasori occulti, diffuso negli anni sessanta.
Al confronto, la professione di giornalista beneficiava di assai maggiore prestigio, in quanto si riteneva fosse una sorta di missione a difesa della verità, specie in confronto a quella del pubblicitario obbligato a mentire o edulcorare la verità per vendere qualsiasi cosa.
Nel tempo le cose sono molto cambiate.
Lo scoprii quando da presidente della Fondazione Pubblicità Progresso, in occasione di un’importante campagna sulla parità di genere e sul pay gap tra uomini e donne, chiesi al caporedattore dell’inserto economico di un grande quotidiano se si fosse potuto trattare questo tema. Mi sentii chiedere quale investimento c’era dietro, e lì per lì non capii. Risposi: “Dal 1970 Pubblicità Progresso fa campagne sociali gratuitamente, pubblicate gratuitamente”. “Ma in che mondo vivi?” mi disse. “Qui da noi non c’è articolo di economia importante che non abbia dietro un investimento pubblicitario importante”.
Fu allora che i miei dubbi sulla stampa cosiddetta libera cominciarono a consolidarsi. Anche perché vista l’assenza di editori puri, la qualità dei mezzi di informazione è sempre stata viziata dagli interessi dei proprietari.
Con la crisi dei lettori, la sensibilità verso le pressioni degli inserzionisti è inevitabilmente aumentata. I dati ADS certificano da diversi anni un vero e proprio crollo: un quotidiano di rilevanza nazionale come il Corriere della Sera vendeva circa 632.600 copie nel 2008. Nel 2023 ne ha vendute mediamente 225mila. Analogo salasso per La Repubblica: il secondo quotidiano italiano è passato dalle 580.500 copie del 2008 ad una media di 115.000.
Si scopre così che se non esistessero sovvenzioni statali ed europee a vario titolo, diversi editori avrebbero dovuto portare i libri in tribunale.
In Italia il Dipartimento dell’Editoria della Presidenza del Consiglio dà finanziamenti diretti per circa 90 milioni di euro a giornali che si dichiarino pubblicati da cooperative di giornalisti o da società senza fini di lucro, o che siano espressione di minoranze linguistiche, mentre lo Stato aiuta tutti gli editori con riduzioni su spese di spedizione e fiscali con un contributo totale di circa 290 milioni di euro. Ecco la lista delle prime 15:
Dolomiten 6.176.996,03 euro; Famiglia cristiana 6.000.000 euro; Avvenire 5.755.037,42 euro; Italia oggi 4.062.533,95 euro; Libero quotidiano 3.378.217,01 euro; Il manifesto 3.277.900,39 euro; Corriere Romagna 2.218.356,97 euro; Cronacaqui.it (Torino Cronaca) 2.207.300,07 euro; Il Foglio 2.079.514,37 euro; Primorski dnevnik 1.666.668,08 euro; Il Cittadino 1.424.098,80 euro; Quotidiano di Sicilia 1.330.270,90 euro; Cronache di (Libra editrice) 1.259.956,77 euro; Die Neue Südtiroler Tageszeitung 1.086.996,14 euro; Secolo d’Italia 1.034.341,35 euro.
In diversi casi compaiono testate edite da privati, che hanno sfruttato l’escamotage della cooperativa giornalistica per poter accedere ai fondi pubblici.
A queste cifre vanno aggiunte le operazioni speciali decise di volta in volta, come nel caso di finanziamenti ad hoc, per esempio come quelli destinati alle emittenti locali per l’informazione sulla pandemia.
Il Fatto Quotidiano ha recentemente informato di finanziamenti con simili scopi arrivati dalla Commissione europea tramite le diverse direzioni generali, che ovviamente non possono non rispondere a precisi indirizzi politici.
La più clamorosa dimostrazione l’abbiamo avuta proprio nel caso del Covid-19: tutta l’informazione è stata univoca nell’assicurare sull’efficacia e la sicurezza delle terapie sperimentali scorrettamente chiamate vaccini, e sull’appoggio incondizionato a iniziative coercitive come i lockdown e il green pass. Per non parlare dell’ampio spazio dato alle cosiddette “virostar”, che spesso si sono cimentate nel dire tutto e il contrario di tutto, diverse delle quali con palesi conflitti di interesse.
Tutta la filiera, dalle agenzie in giù, si è allineata su un’unica narrazione, escludendo qualsiasi voce critica, o al massimo delegittimandola come nel caso del Premio Nobel Montaigner, considerato un vecchio rimbambito, quando invece è stato il primo a scoprire la presenza di sequenze di HIV introdotte artificialmente nel virus Sars-Cov-2 che non potevano essere un prodotto della zoonosi.
Per non parlare della scarsa per non dire quasi nulla copertura della notizia che il New York Times (non la “Gazzetta complottarda”) ha denunciato alla Corte di giustizia europea Von der Leyen e Bourla per aver trattato via sms segreti l’acquisto di 23 miliardi di euro di cosiddetti vaccini.
È all’insegna della cosiddetta democrazia dell’informazione che si conclude assai mestamente il mandato di Ursula von der Leyen, che nel tentativo di essere rieletta sta facendo diverse piroette politiche, mettendo a rischio – secondo molti commentatori – proprio la possibilità di risultare convincente.
Nel frattempo la direttiva europea denominata DSA (Digital Services Act) sta prendendo forma nella maniera più pericolosa, in quanto si apprende che “qualificati funzionari” stanno procedendo nell’individuare i soggetti che dovrebbero vigilare sui contenuti dei social media.
Anche loro saranno certamente contrattualizzati e sovvenzionati con fondi ad hoc.
Tutto molto più moderno e digitale, ma non tanto diverso dai portinai delatori di mussoliniana memoria.
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