L’accordo sui migranti, che prevede una maggiore collaborazione tra i Paesi membri in merito all’accoglienza e un piano per i rimpatri, è stato rinviato al prossimo semestre europeo. L’intesa raggiunta nei mesi scorsi nonostante la contrarietà di Polonia e Ungheria potrebbe essere approvata nei sei mesi di presidenza belga, visto che quella spagnola ha ormai esaurito il suo turno. E sarò meglio riuscirci, perché dopo il Belgio toccherà all’Ungheria, che allora potrebbe essere l’unico Paese a rimanere contrario. A Varsavia, infatti, spiega Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e InsideOver, dopo le elezioni è cambiato il governo e quello di Tusk è sicuramente più disponibile ad accettare la linea della Ue.



Nel frattempo in uno dei Paesi chiave per controllare il flusso dei migranti, la Libia, l’inviato speciale dell’Onu, il senegalese Abdoulaye Bathily, fatica a trovare la strada per arrivare alle elezioni. Mettere insieme le varie anime del Paese, diviso non solo fra Dbeibah in Tripolitania e Haftar in Cirenaica, ma anche fra le decine di tribù che controllano il territorio, non è così facile. Il problema è dare una parvenza di Stato a un Paese che neanche con Gheddafi era riuscito a definire un’identità nazionale, garantita dal colonnello solo accontentando economicamente i singoli gruppi che gestivano il territorio. Le auspicate elezioni quindi anche stavolta non sembrano all’orizzonte.



La Ue ha raggiunto un accordo per avviare le procedure di adesione di altri Paesi, primo fra i quali l’Ucraina, ma il tema dei migranti e della loro gestione stavolta è rimasto sullo sfondo della riunione del Consiglio europeo. Quando si formalizzerà l’intesa che era stata definita nei mesi scorsi?

Questo era l’ultimo Consiglio europeo a presidenza spagnola: né la Spagna, né la Svezia nel semestre precedente hanno raggiunto l’obiettivo dichiarato di un accordo sulla gestione dei migranti. Tutto viene rinviato al 2024, quando toccherà al Belgio. Nella seconda parte dell’anno, invece, ci sarà l’Ungheria di Orbán.



L’ultima volta che se ne è parlato era stata definita un’intesa alla quale non avevano dato il loro assenso solo Polonia e Ungheria. Le trattative ora a che punto sono?

Siamo ancora fermi a quel punto, ma pochi giorni fa a Varsavia si è insediato un nuovo governo, guidato da Donald Tusk, di centrosinistra, europeista, dal quale ci si aspetta una politica più flessibile sulla questione migratoria. La Polonia potrebbe togliere il suo veto al progetto di riforma del sistema migratorio in Europa. Potrebbe rimanere solo lo scoglio dell’Ungheria.

Quali sono i pilastri su cui si fonda questo nuovo piano per controllare i flussi migratori?

È previsto un meccanismo di distribuzione dei migranti che sarebbe ancora su base volontaria, con l’obbligo per i Paesi che non accolgono nessuno di versare una quota che andrà a finanziare un fondo comune europeo destinato a sostenere l’accoglienza nei Paesi più in difficoltà. L’altro pilastro riguarda i rimpatri, con l’impegno ad aumentarli e a fare accordi con i Paesi di origine delle persone che arrivano nel Vecchio continente.

Un’intesa che potrebbe andare a buon fine nel 2024, anche se bisognerà stringere i tempi nel primo semestre. Poi alla presidenza ci sarà l’Ungheria e visto le posizioni di Orbán su questo e su altri temi sarà difficile trovare la quadra. È così?

L’Ungheria mantiene una sua posizione peculiare rispetto agli altri Paesi europei: lo abbiamo visto nella questione dell’avvio delle procedure per l’ammissione dell’Ucraina, lo vediamo anche nella questione immigrazione. Il fatto nuovo è che probabilmente adesso Orbán sarà solo a sostenere questa opposizione, senza la Polonia.

Intanto in Libia, centro nevralgico del flusso dei migranti verso l’Europa, l’inviato speciale dell’Onu Bathily sta cercando di riunire quelle che lui ritiene le cinque più importanti istituzioni del Paese diviso, per andare unitariamente verso le elezioni. Riuscirà a creare le condizioni per una consultazione o siamo ancora in alto mare?

Siamo in altissimo mare: bisogna dare atto all’inviato Onu di tentare diverse vie per raggiungere un accordo in vista di elezioni e transizione democratica, ma si tratta di uno sforzo velleitario. La storia dimostra che a volte cercando di mettere d’accordo più teste in Libia si rischia di aumentare le tensioni.

Bathily ha trovato difficoltà anche a individuare le cinque istituzioni di riferimento fra Tripolitania e Cirenaica. Avrebbe escluso ad esempio il governo autonominato all’Est che fa capo ad Haftar. È possibile definire delle istituzioni che possano essere accettate da entrambe le parti? Rimane comunque una contrapposizione fra la Cirenaica e la Tripolitania?

Non solo fra le due parti ma fra le 140 tribù che compongono la Libia. Il Paese non è solamente spaccato in due fra Tripolitania e Cirenaica, ma è anche frammentato al suo interno: come quando si spacca un vetro, ci sono tante altre microlesioni, che corrispondono ai contrasti fra le varie tribù libiche. Il tentativo dell’inviato Onu fa acqua per due motivi: gli attori individuati a livello politico non è detto che abbiano un reale controllo del territorio, guidano governi e parlamenti che non hanno una presa reale sul Paese. In secondo luogo si tratta di personaggi che non incontrano i favori dei libici perché vengono visti non come la soluzione ma come la causa dei problemi.

Chi sono questi personaggi?

Mi riferisco ad Aguila Saleh, presidente del parlamento di Tobruk, così come al presidente del Senato libico, camera uscita dal voto del 2012 insediata a Tripoli, o al capo del Consiglio presidenziale Menfi.

Questo è il problema principale, lo scollamento fra istituzioni e un territorio che di fatto non controllano?

Il territorio è sempre in mano alle milizie che a loro volta rispondono alle oltre 140 tribù libiche sparse nel Paese.

In Occidente sembra, invece, che per riunificare la Libia basti mettere d’accordo Dbeibah e Haftar. Dunque non è così.

La diplomazia occidentale ha lavorato per sanare la frattura fra queste due parti, ma è sempre stato sbagliato considerare la Libia solo spaccata in due. Certo, sanare la frattura principale vorrebbe dire fare un grosso passo in avanti, ma per trovare un accordo bisognerebbe sedersi con tutti e in questo momento farlo è molto difficile.

Ma gli stessi leader di Tripolitania a Ovest e Cirenaica a Est che cosa controllano veramente del territorio?

Haftar controlla quasi tutta la Cirenaica ma non solo con il suo esercito: ha accordi con le varie tribù locali, le quali nel momento in cui dovesse accettare accordi con altri organismi della Libia potrebbero anche non sostenerlo più. Inglobare Haftar in un accordo non necessariamente vorrebbe dire comprendere tutta la Cirenaica, anzi, si rischierebbe di spacchettarla. La stessa cosa vale per Dbeibah, che in realtà controlla solo la capitale Tripoli, città che gestisce con singole milizie che rispondono a lui, non a un organismo istituzionale o a forze di polizia vere e proprie. La restante parte della Tripolitania è affidata ad altre milizie, quelle di Sabratha, di Zawiya, del Fezzan. Ci sono tantissimi microattori in campo che possono avere posizioni diverse rispetto ai due leader.

Con questo quadro della situazione riunificare il Paese sembra impossibile. Che cosa si può fare?

Secondo me ci vorrà ancora un altro decennio, perché non c’è solo una questione politica da risolvere ma anche una culturale. Gheddafi pagava con i soldi del petrolio le principali tribù e teneva tutti buoni, ma non ha mai creato una struttura statale: governava tutto dalla sua tenda. E questo lo si paga ancora oggi: nel momento in cui viene meno un rais in Libia non si riesce a mettersi d’accordo. I libici devono capire l’importanza di una organizzazione statale che venga prima di quella tribale. Per vedere i frutti di queste continue trattative politiche, che stimolano il dibattito interno, ci vuole tempo.

(Paolo Rossetti)

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