“Rischiamo di essere ingabbiati su due fronti, e la soluzione è ancora lontana”. Commenta così Mauro Indelicato, giornalista de Ilgiornale.it e Insideover, esperto di politica estera, la situazione dell’Italia al tavolo europeo delle modifiche del Codice frontiere Schengen.

Se ne parla da almeno un decennio, da quando prima l’immigrazione irregolare e poi il terrorismo hanno messo a dura prova le frontiere esterne dell’Unione, ma si deve all’ultima crisi politico-migratoria, quella tra Polonia e Bielorussia, se il dossier è entrato con una velocità significativa nell’agenda della Commissione.



L’Italia, firmataria del trattato nel 1990, è direttamente coinvolta a doppio titolo. Sia perché frontiera esterna dell’Unione, sotto la pressione migratoria della rotta del Mediterraneo centrale; sia perché – ecco il secondo fronte – il trattato di Dublino assegna ai paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza e vieta i cosiddetti “movimenti secondari” (dagli Stati di primo approdo o ingresso ad altre destinazioni).



Cosa dice il trattato?

Il trattato di Schengen è stato concepito con l’obiettivo di togliere le frontiere interne al territorio comunitario e garantire libera circolazione di mezzi e persone. Al contempo, solo in casi determinati, un singolo governo può decidere la sospensione del trattato e il ripristino delle frontiere. l’Italia ad esempio lo ha fatto quando ha ospitato G8 e G7.

Qual è l’obiettivo della Commissione?

Adesso la Commissione vuole creare uno “spazio intermedio” tra queste due possibilità e dare la possibilità di ricorrere, in caso di necessità, a soluzioni alternative al ripristino integrale del controllo delle frontiere e alla sospensione del trattato di Schengen.



Perché questa riforma?

Le recenti crisi sanitarie e migratorie hanno mostrato alcuni limiti del trattato, con governi che più volte hanno fatto ricorso alla sospensione in risposta a pericoli riscontrati al proprio interno. L’esecutivo comunitario in poche parole vuole instaurare un sistema in cui i singoli governi possono fissare sì dei controlli, ma senza intaccare del tutto la libera circolazione e sospendere Schengen. L’introduzione di dogane e frontiere interne è vista, con la nuova riforma, come extrema ratio.

C’è un conflitto di interessi contrapposti?

Da un lato c’è per l’appunto il principio della libera circolazione, un punto cardine nell’architettura dell’integrazione europea per come concepita soprattutto da Maastricht in poi. Dall’altro però c’è la necessità sempre più impellente da parte dei singoli Stati di dare risposte ai cittadini in termini di sicurezza e controlli. La proposta della Commissione prova a muoversi nella stretta intercapedine di questi due interessi.

E c’è la possibilità reale di un maggiore coordinamento tra i paesi?

La riforma aspira a creare un maggior dialogo tra i vari governi. Basti pensare che, tra le altre cose, è prevista la cosiddetta “responsabilità regionale”, ossia prima di attuare nuovi controlli lungo i confini un determinato governo deve valutare anche le conseguenze che le misure avranno per lo Stato confinante o per la regione circostante. Ma un maggiore coordinamento si ottiene solo se c’è una reale volontà politica alla base. E non sempre tra i governi del Vecchio Continente questa volontà è stata riscontrata.

Che riforma imporrebbe oggi, a tuo modo di vedere, quanto accaduto alla frontiera orientale dell’Ue tra Polonia e Bielorussia?

L’Europa deve evitare di farsi ricattare da Paesi terzi e deve evitare che le crisi migratorie vengano strumentalizzate. Per farlo deve perseguire in primo luogo le organizzazioni criminali che operano all’esterno e che sfruttano i movimenti migratori per i propri business illeciti. Si possono attuare tutti i meccanismi che si vogliono all’interno dell’Ue, ma se non si combattono i trafficanti stanziati nei Paesi di origine dei flussi il Vecchio Continente sarà sempre soggetto a ricatti.

Come si potrebbero contrastare le organizzazioni criminali?

Si potrebbero attuare diversi strumenti di persuasione, ad esempio la sospensione di finanziamenti e accordi commerciali con i Paesi di partenza dei migranti fino a quando i governi locali non si impegnano seriamente a sgominare le reti di trafficanti.

Finora non si è visto.

No, infatti. L’Ue ha sempre preferito, al contrario, dare soldi a questi Paesi. Nella riforma di Schengen è data possibilità ai governi che subiscono il ricatto migratorio di rafforzare i controlli. Una vittoria politica per la Polonia e i Paesi baltici, che vorrebbero costruire anche dei muri. Ma dubito che questo basti a scoraggiare futuri intenti ricattatori.

La posizione italiana?

Roma rischia di essere fortemente danneggiata da questa riforma. L’Italia è sempre stata più interessata in realtà alla modifica di un altro trattato, quello di Dublino. Ma al momento non sembra essere tra le priorità dell’Ue.

È da tempo che chiediamo una revisione di quel trattato. Ci penalizza.

L’Italia ha sempre coerentemente chiesto una modifica del regolamento di Dublino. Quest’ultimo interessa da vicino l’immigrazione perché assegna ai Paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza. Ma soprattutto vieta ogni cosiddetto “movimento secondario”, cioè quelle rotte percorse dai migranti dal Paese di primo approdo in Ue verso un altro Paese comunitario.

E di conseguenza siamo costretti ad accogliere.

Di fatto sì. Per questo Roma ha sempre proposto il superamento di questo principio, magari introducendo un meccanismo di redistribuzione dei migranti. Così non è stato. E anzi, nella modifica del trattato di Schengen è prevista la possibilità, per un Paese che subisce i movimenti secondari, di introdurre i controlli alle frontiere.

Che cosa rischiamo con questa riforma di Schengen?

Di essere ingabbiati su due fronti. Da un lato, per via del trattato di Dublino, abbiamo l’onere di accogliere in quanto Paese di primo approdo. Dall’altro lato avremo frontiere con altri Paesi Ue chiuse non appena i migranti giunti da noi vorranno raggiungere il nord Europa. Il problema immigrazione quindi rischia di essere ancora più grave per l’Italia. È bene ricordare che chi sbarca nel nostro territorio ambisce ad andare in Francia o in Germania e i nostri governi hanno sempre chiuso un occhio sui movimenti secondari. Questo non sarà più possibile.

Nel gennaio 2022 comincia il semestre di presidenza francese. Per ora Macron ha invocato un meccanismo di “protezione delle frontiere”. Bisognerà però capire se la Francia privilegia l’interesse comune o quello proprio e dei paesi soggetti a flussi secondari. Tu cosa pensi?

Dubito fortemente che Parigi privilegi l’interesse comune. Non per demeriti di Macron o per cattive abitudini dei cugini transalpini. Più semplicemente, chi in Europa ha più peso tende a far pendere la bilancia dalla propria parte.

Una tua previsione su quanto uscirà dal tavolo della Commissione? Domani ci sarà il Consiglio europeo.

La riforma della commissione sarà probabilmente trattata già  domani, ma prima della definitiva approvazione il testo dovrà passare dal lungo dedalo politico–burocratico delle istituzioni comunitarie. Quindi ogni valutazione definitiva sarà possibile farla soltanto tra molti mesi. 

(Federico Ferraù) 

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