Durante la presentazione del “Pacchetto di Primavera”, Paolo Gentiloni ha spiegato che nella seconda metà dell’anno verrà rilanciata la discussione sulla revisione delle regole del Patto di stabilità e crescita. L’ex Premier italiano ha specificato che non si tratterà di modificare i Trattati europei, ma di “adattare le regole alla situazione in cui siamo”. Il commissario agli Affari economici non ha nascosto il fatto che “non sarà una partita facile, ma dobbiamo cercare di costruire un consenso su questo nei prossimi mesi”.



Tuttavia, rispondendo alle domande dei giornalisti, il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis, ha voluto puntualizzare che “gli attuali orientamenti forniscono una flessibilità sufficiente, all’interno delle regole, per poter trovare il giusto equilibrio tra finanziare la ripresa e assicurare la sostenibilità dei bilanci pubblici”. Cosa che fondamentalmente viene chiesta al nostro Paese nelle Raccomandazioni di Bruxelles. Raccomandazioni nelle quali Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fmi, nota «un’asimmetria nel tono e nel focus tra le relazioni sintetiche e quelle tecniche di accompagnamento.



Per esempio, se nelle prime si parla molto di qualità della composizione delle entrate e delle uscite fiscali, quindi non si pone solo l’accento solo sull’entità dei saldi, nelle seconde avviene il contrario: ci si concentra maggiormente su deficit e debito pubblico, ponendo l’enfasi sui loro livelli quantitativi e sulle conseguenze in termini di sostenibilità del debito stesso. In ogni caso il nodo cruciale di queste Raccomandazioni per il nostro Paese è un altro».

Quale?

Nelle relazioni tecniche leggiamo che il deficit italiano per l’anno in corso è previsto al 7% del Pil e per il prossimo al 5,8%, quasi il doppio del 3% indicato come obiettivo dal Patto di stabilità che, come è stato chiarito proprio in occasione della presentazione del Pacchetto di Primavera, tornerà in vigore nel 2023. Cosa succederà allora? Come arriveremo dal 5,8% al 3% di deficiti/Pil? Questo è il vero nodo, soprattutto considerando che l’Italia, secondo la Commissione, non avrà ancora recuperato i livelli di attività economica pre-crisi nel 2022, mentre l’Ue nel suo complesso lo farà alla fine di quest’anno e l’Eurozona nel primo trimestre del prossimo.



Sarà possibile avere una ripresa economica e migliorare i conti pubblici come sembra chiedere la Commissione?

Da un lato, la Commissione evidenzia l’impatto espansivo del Recovery fund, non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi tramite l’aumento della crescita potenziale amplificata dalle riforme abilitanti; dall’altro, contemporaneamente, pone l’enfasi sul fatto che tra un anno mezzo si dovrà cominciare a ritirare lo stimolo fiscale. Per alcune economie brillanti e performanti questo può essere anche fisiologico, ma nel caso del nostro Paese si rischia di compromettere la ripresa già debole. L’Italia, come già avevamo previsto mesi fa, si troverà quindi a dover negoziare, come in passato, margini di flessibilità.

Di fatto è cambiata la modalità comunicativa, ma l’atteggiamento dell’Ue nei confronti del nostro Paese è sostanzialmente lo stesso?

Diciamo che la Commissione ha giustamente riconosciuto l’eccezionalità dell’effetto della pandemia, ma ora rischia di tornare a un equilibrio che non è più idoneo rispetto alle sfide che molte economie, tra cui sicuramente quella italiana, devono ancora affrontare in quella che sarà la lunga fase di aggiustamento post-Covid. Anche nelle differenze di toni e dichiarazioni tra Gentiloni e Dombrovskis si nota che, da una parte, vi sono i falchi che spingono per la riapplicazione tout court, con qualche rimaneggiamento minore, dell’impianto regolamentare delle politiche fiscali pre-esistente al Covid, e, dall’altra, chi invece si fa portavoce della necessità di adeguarlo alla nuova realtà. Credo che nei prossimi mesi verrà combattuta una battaglia a Bruxelles e nelle capitali europee per cercare di adeguare lo spirito e la lettera delle regole a quella che è la situazione post-pandemica delle economie degli Stati membri. Esse saranno in ripresa, ma con uno slancio molto disomogeneo, che l’impianto comunitario deve comunque riconoscere.

La proposta avanzata da Visco sull’emissione di debito comune, come quella di Sassoli di rendere permanente il Recovery fund, sono da vedersi nell’ottica di questa battaglia?

Sì, sono proposte che mirano a rendere permanenti alcune caratteristiche salienti del meccanismo del Recovery fund. È chiaro che in un’economia gravemente colpita come quella italiana, applicare le regole del Patto di stabilità a breve rischia di destabilizzare o rendere ancora più fragile la nostra ripresa oppure di costringerci a questuare. Cosa diversa è invece, nella consapevolezza di dover comunque raggiungere un riequilibrio di finanza pubblica, soffermarsi non solo sui livelli quantitativi delle sue voci, ma anche sulla qualità.

In che modo?

L’impianto del Recovery fund prevede l’erogazione di risorse ai Paesi i cui progetti vengono ritenuti finanziabili e che attueranno riforme chiave che possano amplificare gli effetti degli investimenti finanziati. Credo che questo aspetto, che va nella direzione di rafforzare le richieste interne alla stessa Italia di attuare le riforme, dovrebbe essere traslato nelle discussioni su un’eventuale modifica del Patto di stabilità. Si tratterebbe di adottare nella valutazione sulla sostenibilità della finanza pubblica un quadro più articolato che tenga conto degli sforzi di riforma e dei risultati raggiunti in itinere, e non si concentri, invece, sugli zero virgola.

Stanti le condizionalità insite nel Recovery fund e il ritorno delle regole del Patto di stabilità, nel 2023 rischiamo di trovarci una situazione peggiore rispetto a quella precedente la pandemia dal punto di vista dei vincoli europei?

È molto probabile. Come dicevo prima, rischiamo di trovarci in una situazione che non consentirebbe o comprometterebbe la capacità di avvantaggiarsi in pieno dell’opportunità del Recovery fund. Nessuno nega che ci siano fette della spesa pubblica italiana improduttive o da efficientare, anche in modo significativo, ma sarebbe pericoloso avviare una sua drastica ricomposizione quando gli effetti della pandemia non sono ancora stati pienamente riassorbiti. Occorre quindi promuovere sì le riforme, ma senza che allo stesso tempo venga impostata una politica fiscale restrittiva che ne mitigherebbe lo slancio espansivo.

(Lorenzo Torrisi)