Di rogne Mario Draghi ne sta trovando a iosa in Italia (una maggioranza divisa, un parlamento malmostoso, uno sciopero “generale parziale” fatto a posta per creare confusione, i giochi di palazzo per il Quirinale), e nel frattempo spuntano nuovi grattacapi in Europa. C’è già chi parla di “ritorno al futuro” e chi teme l’ombra del passato. Giovedì si riunisce la Bce che potrebbe aprire la porta a una stretta monetaria, sia pure in guanti di velluto, per evitare che l’inflazione sfugga di mano. Intanto, zitti zitti piano senza fare confusione (ci perdoni Gioacchino Rossini) gli eurocrati hanno aperto nell’ottobre scorso la consultazione su come e quando ripristinare le regole sul debito e sul deficit, insomma i parametri di Maastricht. È opinione pressoché generale che erano già obsoleti prima della pandemia, adesso sono addirittura dannosi, si pensi solo al bizzarro obiettivo di portare i debiti pubblici al 60% del Pil: è del tutto irrealistico non più solo per l’Italia e la Grecia, ma per la Francia e persino per la Germania. 



Se ne rende conto a Berlino anche il nuovo Governo semaforo. Il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che i frugali hanno nominato membro permanente del loro club, si è mostrato disposto a discutere su regole più attuali e soprattutto flessibili. Il nuovo cancelliere, il socialdemocratico Olaf Scholz, che come ministro delle Finanze nell’ultimo governo Merkel era sembrato un tardo epigono dell’austerità, venerdì scorso, nella sua prima missione all’estero, ovviamente a Parigi, ha detto a Emmanuel Macron che “crescita e stabilità non sono in contraddizione”. Parole dolci per il Presidente francese che ha messo la riforma del Patto di stabilità tra i tre obiettivi della prossima presidenza francese dell’Ue, insieme alla sovranità europea e al controllo dei confini. E scusate se è poco. 



In Italia ne discutono, per ora, solo gli addetti ai lavori e non se ne parla granché nemmeno nel circuito mediatico. Allo stato attuale non è chiaro come la pensa il Governo. Draghi è un riformista, lo ha detto e fatto alla Bce, ma per il momento appare molto cauto. Forse non vuole creare difficoltà a Paolo Gentiloni, forse manda avanti Macron. Tuttavia da Roma non arrivano contributi concreti al dibattito, né una posizione chiara. È possibile che l’Italia scelga di esercitare la sua pressione non tanto sul Patto di stabilità dove per forza di cose è più debole se non proprio in colpa (non ha fatto abbastanza per mettere i conti a posto prima della pandemia) e s’accontenta di mettersi sulla scia francese, ma su questioni strutturali altrettanto importanti e forse ancor di più. È già emersa una posizione italiana favorevole a rendere permanente il piano europeo sia pur in forme diverse dal Next Generation Eu, ma basandosi sugli stessi principi: condivisione degli oneri e dei rischi, finanziamento con la fiscalità comune. Sarebbero due passi da gigante verso un’Europa più federale, ma proprio per questo l’ostilità dei sovranisti si somma a quella dei frugali e di chi resta attaccato all’Europa intergovernativa o delle nazioni. 



La Commissione europea intende porre ai 27 Paesi membri un questionario con undici domande, tra queste c’è anche la possibilità di una golden rule per gli investimenti verdi. Sarebbe, del resto, paradossale che nel momento in cui l’Ue si lancia in un’ambiziosa transizione ecologica, gli investimenti venissero puniti perché impiombano i disavanzi pubblici. Lo ha riconosciuto anche il vicepresidente Valdis Dombrovskis a lungo considerato un inflessibile falco, ma che ora s’adorna di qualche bianca penna da colomba. I riformisti hanno come punto di riferimento il commissario Gentiloni secondo il quale “la riduzione del debito deve essere realistica, graduale, compatibile con la crescita sostenibile”. Cosa significa in concreto lo si vedrà, la discussione occuperà tutto il prossimo anno e l’Ue intende chiuderla agli inizi del 2023. Tuttavia le varie soluzioni tecniche saranno influenzate dalla pandemia, dall’inflazione, dalla politica monetaria e dalla politica tout court che oggi dipende da due variabili essenziali: se resteranno al governo Mario Draghi ed Emmanuel Macron. Li abbiamo messi in ordine di tempo perché il futuro di Draghi si capirà di qui al prossimo mese con l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale, quella di Macron uscirà dalle urne in primavera. 

Allora sarà anche più chiaro se la fiammata dei prezzi si spegnerà. È provocata per il momento dalla sfasatura tra una domanda in ripresa e un’offerta bloccata dai buchi nella catena produttiva globale, ma si sta registrando anche una pressione dei salari molto forte negli Stati Uniti ed evidente anche in Germania. La Federal Reserve ha detto che ad aprile potrebbe anche aumentare i tassi d’interesse, mentre nel frattempo riduce l’acquisto di titoli. Le Banche centrali sono di fronte a un gran dilemma: se stringono colpiscono non solo i prezzi, ma anche la produzione, evocando così lo spettro della stagflazione; se lasciano il costo del denaro sotto lo zero in termini reali alimentano l’illusione monetaria e una bolla che potrebbe anch’essa frenare se non interrompere la ripresa. Stabilità e crescita non sono in contraddizione, ma nemmeno in sintonia, tanto meno adesso.

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