Ieri e lunedì, nella riunione di Eurogruppo ed Ecofin, si è tornati a parlare del futuro del Patto di stabilità e crescita. L’Austria, attraverso il ministro delle Finanze Gernot Bluemel, ha ribadito la propria contrarietà a “ulteriori eccezioni” sul debito pubblico. La posizione di Vienna è la stessa di altri Paesi, i cosiddetti frugali, che a inizio settembre hanno sottolineato l’importanza di ridurre disavanzo e rapporto debito/Pil in tutta l’Ue. Secondo il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, “la regola del debito del 60% è obsoleta” e per questo vanno definite nuove regole e “su basi più realistiche”. Queste visioni contrapposte, come spiega Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fmi, evidenziano «come in Europa sia in atto uno scontro tra coloro che vogliono modernizzare l’impianto delle regole del Patto di stabilità e crescita, per renderlo coerente con lo spirito e la natura del Next Generation Eu, e coloro che, invece, combattono una battaglia di retroguardia. Sarà molto importante capire quale posizione prenderà la Germania, il cui nuovo Governo non è ancora insediato, perché, come accaduto in passato, sarà decisiva».
C’è il rischio che si arrivi a un esito dalle conseguenze negative?
C’è un ampio consenso, anche nelle istituzioni europee, sul fatto che la pandemia è stata uno shock senza precedenti. Registriamo, però, posizioni assai variegate, in alcuni casi addirittura in contrapposizione, su come si debba agire nell’attuale fase di uscita dalla pandemia, caratterizzata da una pesante incertezza. Il mio timore è che si ricominci in qualche modo a pensare in termini di categorie tradizionali su come gestire la macroeconomia europea. Se ciò fosse vero, saremmo di fronte a un grave errore e rischierebbero di rimetterci le economie più fragili dell’Eurozona.
Cosa vuole dire pensare in termini di categorie tradizionali?
Ora che ci sono segnali di uscita dalla pandemia, supportati da una dinamica al rialzo della crescita del Pil, vediamo che ci sono alcuni Paesi che spingono, in modo a mio avviso prematuro, per inserire come priorità nell’agenda la riduzione del debito.
In effetti, proprio durante la pandemia il livello dei debiti pubblici è aumentato molto.
Sì, è vero. Tuttavia, porre come prioritaria la riduzione del debito rischierebbe di compromettere i risultati positivi, che oggi sono sotto gli occhi di tutti, dell’intervento straordinario posto in essere dalle autorità di politica economica, quando invece bisognerebbe amplificarne al massimo l’efficacia. In particolare, si potrebbe avere paradossalmente un innalzamento del rapporto debito/Pil. Infatti, dal momento che il debito è aumentato in maniera significativa durante la fase più acuta della pandemia, l’unica modalità sostenibile e realistica per ridurlo è concentrarsi sullo sviluppo delle economie europee: la parola d’ordine deve essere massimizzare la crescita. Se, invece, ci si concentra esclusivamente sul numeratore, si rischia paradossalmente di peggiorare il rapporto debito/Pil.
Non bisogna nemmeno illudersi, come già aveva evidenziato qualche settimana fa, che basti innalzare il parametro debito/Pil dal 60% al 100%.
Esatto. Nel dibattito sul futuro delle regole europee mi sembra che vi sia chi si pone in contraddizione con lo sforzo senza precedenti rappresentato dal Next Generation Eu, indirizzato a creare le basi per una trasformazione strutturale dell’economia in senso verde e digitale. Sarebbe un grave errore dare con una mano i fondi per agevolare questa trasformazione e con l’altra riprenderseli o mitigarne l’impatto benefico. Credo, quindi, che ora tutte le azioni debbano essere tese a massimizzare lo sviluppo e la crescita perché solo così potremo uscire in modo duraturo e sostenibile dagli effetti laceranti che questa pandemia altrimenti lascerebbe, in particolare sulle economie ad alto debito. Per queste ultime, la questione della riduzione del rapporto debito/Pil non si può ridurre semplicisticamente al raggiungimento di un maggior avanzo primario: occorre una dinamica del Pil più sostenuta rispetto al passato.
Andrebbe quindi nella giusta direzione la proposta, avanzata da Confindustria, Medef e BDI, di scomputare gli investimenti green dal deficit?
Sì. Si tratta di una proposta, nei suoi aspetti fondamentali, non nuova nel dibattito e che risulta congruente con quella che è stata la risposta strategica dell’Ue alla pandemia rivolta alla trasformazione in senso moderno dell’economia. Le regole economiche non vanno ripensate solo in termini quantitativi, ma anche strategici e qualitativi.
Non ci sarebbe poi il rischio di scelte o trattative politiche per stabilire se un investimento è scorporabile o meno?
Credo che nel momento in cui venissero condivise con le autorità europee delle regole classificatorie, queste potrebbero poi essere applicate in modo uniforme. Ritengo altresì importante sottolineare che in questa fase le autorità di politica economica dovrebbero essere molto attente a non deteriorare la aspettative degli operatori economici.
In che senso?
Da un lato, abbiamo la cessazione ormai certa del Pepp a fine marzo, a meno di fatti o dati inattesi. Dall’altro, il dibattito sulla revisione del Patto di stabilità in cui potrebbe prevalere chi lo concepisce come uno strumento per cristallizzare una politica fiscale restrittiva. Ecco, l’interazione tra questi elementi rischia di avere un impatto sulle aspettative con contraccolpi sia sui mercati finanziari che in termini di crescita del Pil. Ora che, grazie agli interventi senza precedenti della Bce e all’iniziativa del Next Generation Eu, stiamo uscendo dalla fase acuta pandemica, porre nel dibattito pubblico dei termini che possono essere interpretati in modo pessimistico dagli operatori potrebbe avere delle conseguenze sulla resilienza della ripresa. Il che sarebbe il risultato opposto rispetto a quello per cui le autorità europee hanno lavorato fino a oggi.
Sembra che all’Eurogruppo sia stata espressa una certa preoccupazione per l’andamento dell’inflazione. C’è da temere un cambiamento nelle politiche della Bce?
La Bce ha detto in modo chiaro che il rialzo dell’inflazione è temporaneo e non c’è quindi necessità di correggere la sua politica monetaria. Tuttavia, non si può escludere uno scenario per cui l’Eurotower, nonostante la posizione ufficiale sulla transitorietà dell’inflazione, in qualche modo restringa un po’ la sua politica monetaria. Implicitamente, è ciò che emerge dalle risposte all’impronta fornite dalla Presidente Lagarde all’ultima conferenza stampa. Sarebbe quindi opportuno che la Bce intervenga per fare chiarezza in materia.
Sarà anche importante che nelle previsioni economiche autunnali che diffonderà giovedì la Commissione europea sia cauta nel fornire le sue stime sull’inflazione che saranno sicuramente più alte di quelle della Bce, che ha già fatto presagire una revisione al rialzo delle stesse a dicembre.
Esattamente. Da un lato, sarà importante vedere cosa ci diranno le stime sul Pil in termini di robustezza della crescita economica. Dall’altro, comprendere in che misura il rialzo dell’inflazione rifletterà fattori transitori o destinati a permanere per un tempo non breve, perché questo rischia di creare le basi per una decisione, in un senso o nell’altro, da parte della Bce riguardo la propria politica monetaria.
(Lorenzo Torrisi)
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