Caro direttore,
forse non è così importante capire che differenza passi fra “il 92% di accordo” evocato l’altra notte dal ministro delle finanze tedesco Christian Lindner e il 95% citato invece dall’italiano Giancarlo Giorgetti e dal francese Bruno Le Maire. Qualunque siano ancora i nodi tecnici irrisolti – dai tempi della “transizione verso la convergenza” al calcolo degli investimenti verdi o degli aiuti all’Ucraina – vi sono pochi dubbi che possano essere sciolti alla stretta finale del Consiglio Ue, squisitamente politica. E su questo piano il numero rilevante è verosimilmente un altro, a una sola cifra: il 3 dei “grandi firmatari” di una bozza di accordo che sarebbe stata chiusa a Bruxelles: Germania, Francia e Italia (con la controfirma formale della presidenza di turno spagnola dell’Unione).
È passato molto tempo dall’estate 2011, quando l’Italia si trovò in una situazione solo poco diversa da quella che quattro anni dopo costò alla Grecia un commissariamento formale. Oggi invece né Berlino, né Parigi, né Francoforte e tantomeno Bruxelles possono emettere diktat, anzitutto imporre austerity. Roma, dal canto suo, ha assunto una tacita e informale rappresentanza di altri Paesi-Ue (ad esempio la galassia irrequieta dell’Est Europa). E l’attualità geo-economica è dura per tutti: non è tempo di divisioni o di insuccessi diplomatici interni all’Unione.
Il 1° gennaio 2024 deve segnare l’inizio di una fase nuova: dopo un break che nessuno si attendeva così lungo all’inizio della pandemia e così complesso per i terremoti geopolitici successivi. E se giusto all’inizio del 2020 Angela Merkel ed Emmanuel Macron prospettavano una “manutenzione straordinaria” dei vecchi parametri di Maastricht, questa matura oggi nelle mani diverse di Olaf Scholz e Giorgia Meloni: con la Presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che non è sicuro potrà disporre di un secondo mandato dopo l’euro-voto del prossimo giugno (giusto ieri è di nuovo saettata la candidatura di Mario Draghi a leader della Commissione, subito informalmente declinata dall’ex Premier italiano).
Nel merito (più politico che tecnico-finanziario) il pranzo europeo di Natale del Governo italiano è ancora tutto da cucinare e servire. E il suo versante interno si profila forse più impegnativo di quello esterno. Non è un mistero che la formulazione del nuovo Patto e il ruolo dell’Italia scontano l’adesione di Roma al Mes: che del resto è stata l’arma negoziale (bilama) che il Governo ha tenuto in mano fino alla fine. L’atterraggio parlamentare si annuncia complesso. Il “no” al Mes era un punto nella piattaforma elettorale che ha consentito al centrodestra di affermarsi nel settembre 2022. Ed è un impegno che la Lega non sembra intenzionata a rinnegare facilmente. La Premier dovrà quindi sfoderare tutta la sua capacità politica di “vendere” alle Camere il nuovo pacchetto finanziario: che in linea di principio dovrebbe soddisfare il Pd europeista, ma che sarà certamente accusato di poco equilibrio fra impegni e contropartite. L’alternativa, del resto, sarebbe a questo punto molto vicina a una virtuale “Italexit”: in una fase peraltro molto fluida delle alleanze internazionali.
Ma, una volta di più, è prevalentemente politico l’orizzonte entro il quale la leader Fdi si accinge a giocare l’esito per l’Italia del maggior dossier europeo. Riportare Roma a bordo della tolda Ue equivale a prefigurare l’ingresso di Ecr – il partito della destra conservatrice e riformista di cui Meloni è la virtuale leader europea – nella “grande coalizione” che si va individuando fra Strasburgo e Bruxelles dopo il voto di giugno. In una cornice di sondaggi ancora molto incerta, per la prima volta la “triplice storica” (Ppe, Pse e i liberali di Renew Europe) potrebbe non avere più la maggioranza dell’Europarlamento: e la posizione dei Verdi sarà molto più problematica, nell’attuale fase di vento contrario a una transizione verde accelerata. È il vero margine contrattuale che è stato nelle ultime settimane ed è ora in tasca a Meloni: a un tempo Premier di un grande Paese fondatore dell’Ue e leader di una forza politica in ascesa nel Vecchio continente. Poiché l’attesa è che si sieda in questa posizione di relativa forza fra sei mesi al tavolo dei rinnovi Ue, è comprensibile che la Germania addirittura più della Francia abbia allentato verso Meloni una doppia pregiudiziale: quella verso il Paese di cui è Premier e verso di lei personalmente come leader di destra finora anti-europea.
Capiremo nei prossimi giorni quanto la scommessa di Meloni “neo-europea” si sia concretizzata a favore dell’Italia nelle nuove regole finanziarie Ue e a favore di un cantiere ricostruttivo che l’Europa non potrà permettersi di non aprire.
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