Nel 2015 a Parigi è stato stipulato il primo accordo universale sui cambiamenti climatici, riguardo alla riduzione di emissione dei gas serra. Obiettivo centrale è quello di mantenere entro la fine del secolo l’incremento della temperatura globale sotto i 2°C, rispetto ai livelli di due secoli fa, cercando se possibile di limitarlo entro 1,5°C. Sulla scia di questo patto, nel 2019, la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha annunciato l’adozione del Green Deal. Un ambizioso progetto che punta alla neutralità climatica dell’Unione Europea entro il 2050, con un traguardo intermedio nel 2030 che prevede la riduzione del 55% delle emissioni di gas climalteranti (CO2, NO2, CH4).



Il problema è come arrivarci. Tra le vie individuate da Bruxelles c’è il cosiddetto carbon farming (letteralmente “coltivazione di carbonio”) che affida all’agricoltura e alle foreste (Afolu, Agriculture, Forestry and Other Land Use), nonché al settore zootecnico, un ruolo unico e fondamentale nei confronti dei cambiamenti climatici.



Infatti il settore primario non solo è in grado di assorbire la CO2 dall’atmosfera durante la crescita delle piante (fotosintesi clorofilliana), ma potrebbe anche, adottando la pratica del carbon farming, sequestrare la CO2 rimessa in circolazione dal metabolismo animale e dalla decomposizione delle deiezioni e della biomassa dei residui agricoli lasciati in campo (paglia, residui di potature, ecc.).

L’Europa vuole favorire questa pratica, facendola diventare anche una nuova fonte di reddito per l’imprenditore agricolo. Questi, quantificando gli assorbimenti di carbonio sequestrati (carbon credits), potrebbe venderli sul mercato volontario dei crediti di carbonio, rendendoli acquistabili dalle industrie per compensare le proprie emissioni di gas serra. Un credito di carbonio equivale ad 1 tonnellata di CO2.



Esistono diversi settori del comparto agricolo in grado di sequestrare il carbonio organico per mezzo dell’esercizio del carbon farming, da quello forestale a quello delle torbiere o dell’allevamento, nonché quello dell’uso dei suoli. Quest’ultimi possono dare un grande contributo, se si pensa che attualmente i suoli hanno una bassa percentuale di carbonio con una tendenza al declino (Pellerin et al., 2020).

Diverse sono le tecniche colturali e produttive che fanno riferimento al carbon farming, cioè capaci di trattenere il carbonio nel suolo, in particolare quella dell’agricoltura conservativa che si sviluppa attraverso l’applicazione di tre principi:

– minor disturbo del suolo con le lavorazioni (aratura, erpicatura), che significa limitare l’esposizione del suolo all’aria (ossigeno), con conseguente ossidazione del carbonio (CO2), e ridurre la perdita di acqua per evaporazione. Le lavorazioni del terreno possono anche aumentare il rischio di erosione della parte più superficiale del suolo, dove il carbonio è maggiormente presente, e un peggioramento della sua struttura.

– La copertura del suolo con vegetali (cover crop), soprattutto se permanente, assorbe maggiore CO2 dall’atmosfera tramite la fotosintesi, protegge il suolo dalla sua ossidazione e mette a disposizione la propria biomassa.

– La semina di colture diverse, rispetto ad avvicendamenti semplificati, determina differenti apporti di residui sul terreno, favorendo l’aumento dello stock di carbonio organico.

L’impiego da parte dell’agricoltore di questi principi che favoriscano l’immagazzinamento del carbonio nel suolo, porterà, soprattutto nei primi anni, ad una riduzione delle rese, da qui la necessità di intervenire con incentivi economici.

In conclusione, il settore primario è in grado di offrire alla comunità civile non solo prodotti agricoli e alimentari, ma anche di farsi carico della decarbonizzazione, migliorando le condizioni climatiche e dando vita ad un nuovo assetto economico, più rispettoso dell’ambiente.

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