Bisogna difendere quello specifico bosco o la possibilità che un bosco possa esistere via nuove ecotecnologie? Chi scrive poneva questa domanda nel corso di “Scenari globali” (International Futures) presso la University of Georgia (nei dintorni di Atlanta) come sfida cognitiva agli studenti con orientamento ecoconservatore, considerando che in quell’università era nata l’ecologia moderna negli anni 30 e c’era l’obbligo per qualsiasi insegnamento di inserire elementi di Environmental Literacy.



La domanda spiazzava gli studenti ambientalisti perché erano abituati a combattere l’econegazionismo, ma non una visione ecofuturizzante: l’ecologia artificiale che interviene sull’ambiente per armonizzare biodiversità e vitalità del ciclo naturale con lo sviluppo antropico. La base comune di analisi era il “Full cost principle“, cioè il fatto che l’economia non calcolava i costi di distruzione ambientale mentre avrebbe dovuto farlo. La soluzione ecoconservatrice era ed è quella di limitare lo sviluppo o condizionarlo fortemente. Ma era ed è facilmente dimostrabile il conflitto con lo sviluppo e un rischio depressivo se applicata. Per mitigarlo era ed è necessario aprire la mente a un intervento di ecologia artificiale non ecodistruttivo, ma ecocostruttivo: strutture e infrastrutture antropiche disegnate per ospitare biomasse e la loro riproduzione, ovviamente cicli chiusi per evitare contaminazioni, genetica delle piante per rafforzarle, ecc. Tale approccio implicava e implica un’evoluzione del concetto di sostenibilità da passivo ad attivo: l’ecologia artificiale interventista.



Ora la stessa domanda in apertura andrebbe posta al Parlamento europeo dove è intenso il confronto, per l’emissione a breve di nuovi standard di ecopolitica, tra ecoconservatori che perseguono il ripristino di ambienti de-antropizzati e chi teme l’impatto economico di una riduzione dei terreni sfruttabili da processi produttivi, a rischio agricoltura e pesca, ma non solo se l’econservatorismo, per ora bloccato, passasse: un ecostandard troppo limitativo avrebbe effetti economici e finanziari sistemici. Ma chi si oppone ha il solo strumento del realismo economico che potrebbe non bastare per evitare guai. Da un lato, il realismo sta prendendo piede portando la politica europea a rivedere il calendario e i divieti rigidi per la decarbonizzazione, nonché a reinserire il nucleare nelle energie pulite per dubbi sull’efficacia delle fonti alternative intermittenti. Dall’altro, il consenso “verde” che privilegia l’ecoconservazione sullo sviluppo è piuttosto forte. Per questo chi scrive raccomanda una pausa di riflessione per studiare l’opzione di ecologia artificiale che, in teoria, dovrebbe portare a una convergenza del consenso per armonizzare tutela dell’ambiente e sviluppo. Le tecnologie ci sono. E l’ecologia artificiale è sempre più utile per rispondere al cambiamento climatico via ecoadattamento: ambienti protetti sia per gli umani, sia per la natura.



Nel sottofondo di questo tema c’è un conflitto mistico. L’ecoconservatorismo ha radici nell’Ipotesi Gaia, cioè che la biomassa sulla Terra sia una rete integrata che permette la vita sulla Terra stessa e che l’impatto dell’antropizzazione comporti un pericolo sistemico: pertanto l’Uomo non deve mettere il dito nel ciclo naturale e deve adattarsi a esso, in subordine, da intendersi come neopaganesimo. Il Progetto Noè – qui battezzato come tale, intendendo l’ecologia artificiale – invece si richiama all’intervento diretto dell’Uomo per tutelare la natura, come scritto nella Bibbia, nella sua parte pre-evangelica: la missione divina affidata all’Uomo e di prendersi cura della vita sul pianeta, l’Arca uno strumento tecnologico per farlo.

A chi scrive sembra netta la contrapposizione tra ecologia neopagana e primato antropico. Forse questo livello archetipico del linguaggio che definisce la missione della comunità umana in relazione al proprio ambiente andrebbe chiarito.

www.carlopelanda.com

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