Ambiente, società ed economia sono strettamente connessi. Tutti coloro dotati di buon senso sono favorevoli a trovare soluzioni per preservare il nostro pianeta, ma in tema di sostenibilità ambientale i paesi dell’Unione Europea incidono solamente per il 9% circa della produzione di CO2 mondiale.

L’attuale Commissione europea, in carica fino al 2024, si è certamente connotata per un orientamento estremistico sulle politiche di decarbonizzazione. “Se l’industria pesante europea scompare, così sia” (“Si l’industrie lourde européenne disparaît, qu’il en soit ainsi”): questa dichiarazione è stata rilasciata dall’economista Pierre Regibeau, ex collaboratore del commissario Ue per la Concorrenza, che, in un’intervista al quotidiano belga L’Écho, ha pronunciato queste parole testuali, in un atteggiamento che volentieri sacrifica le conseguenze sociali della perdita di posti di lavoro dovute alle politiche ecologiche europee.



La transizione ecologica è senz’altro giusta e necessaria, ma è impensabile che l’Europa ne sia l’unica artefice.

Ci sono Paesi che inquinano senza remore, che ci vendono a un costo inferiore i loro prodotti, facendo concorrenza alle nostre industrie che arrancano sempre più sotto il peso delle logiche imposte da Bruxelles.



Dovremmo pensare invece a imporre restrizioni e sanzioni e bilanciare la protezione del pianeta con la nostra economia, senza smantellare uno dei sistemi industriali più solidi ed avanzati al mondo; studiare soluzioni globali e più moderate per una transizione equa e accessibile, senza che le nostre economie siano costrette a fermarsi mentre continuiamo stoltamente a favorire quelle dei Paesi inquinanti, come se non respirassimo tutti la stessa aria.

Anche il mondo del lavoro è un elemento cruciale in questa discussione, perché è un dato di fatto che la transizione green comporterà cambiamenti nei settori e nei ruoli professionali, con il rischio, anzi la certezza, della perdita di lavoro per molti.



Per questo motivo, dopo il periodo di leadership di von der Leyen e Timmermans, è auspicabile che nel 2024, con le elezioni europee e l’insediamento di una nuova Commissione, l’interesse dell’Ue si focalizzi sulla protezione non solo dell’economia ma anche dei valori, della tradizione, della storia e della tecnologia europea, cercando di correggere la rotta fin qui tracciata. Timmermans, che è il principale promotore e sostenitore entusiasta delle attuali politiche green, non sarà più vicepresidente della Commissione europea, anche se corriamo il rischio che, vincendo le elezioni in Olanda, potrebbe uscire dalla finestra per rientrare dalla porta e ritornare alla carica con la sua ideologia ecologica.

Per intenderci, a lui dobbiamo quell’approccio fanatico all’auto elettrica, dove si calcola solo l’impatto delle emissioni delle macchine tradizionali e non della produzione e dello smaltimento delle auto elettriche, o dell’impatto ambientale e geopolitico della carenza delle materie prime critiche che servono a produrle.

O come per la questione degli imballaggi, parto di una mente che punta chiaramente alle deindustrializzazione, la nostra, non di sicuro delle multinazionali che possiedono il brevetto della carne sintetica. Anche qui la filiera italiana è la più importante in termini di tecnologia e di export, nonché di riciclo.

Abolire gli imballaggi significa tornare a ciò che eravamo nel dopoguerra coi cibi sfusi. Perché il cibo sfuso aumenta lo spreco alimentare e i rischi per la salute; non si trasporta e non si esporta.

O come per la direttiva sulla casa green, che vuole classificare gli edifici residenziali europei in classi energetiche. Per l’Italia, che ha circa il 70% dei cittadini che possiedono la casa in cui vivono, risulterà essere una pesantissima patrimoniale occulta che colpirà chi vorrà sostenere i costi degli interventi di efficientamento energetico. L’alternativa, secondo una stima di Confedilizia, sarebbe una svalutazione delle nostre abitazioni fino al 40% del loro valore.

Per non parlare del tentativo di minare la nostra produzione e imporre scelte alimentari con il famigerato nutriscore, con le farine di insetti o l’etichettatura del vino, e via così, in un temibile coacervo di eco-ideologia che affossa le nostre eccellenze e minaccia il nostro Paese con misure impossibili da attuare senza pesanti costi anche sociali, in nome di una battaglia che è già persa se non è planetaria.

È giusto che la parola passi agli elettori.

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